Dirigenti dell'Associazione Lo Specchio di Alice

“Lo Specchio di Alice”
Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDi
versità"
Sede Sociale: presso Presidente
Dott.ssa Giuseppina Rossitto
Via Bellinzona 34
40135 Bologna
Codice Fisc. 91173810374

e mail: giuseppina.rossitto@gmail.com
e mail: rossitto.direttorequaderni@gmail.com

Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto
Vice-Presidente: Dr. Wilko Mattia Artale
Segretario: Dott.ssa Mirna Magnani
Consigliere: Prof.Federico Palmonari
Consigliere: Prof. Angelo Fortuna

Lo Specchio di Alice

Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDiversità" - APS

Associazione culturale di promozione sociale fondata nel 1998 a Bologna. Obiettivo dell’associazione è valorizzare le diversità di pensiero in momenti creativi unitari. Gli strumenti attraverso cui opera sono: I cenacoli di scrittura collettiva, narrativa e poetica, laboratori di idee che si concretizzano nella pubblicazione di romanzi collettivi; la Rivista bimestrale Quaderni-Incontri per Riflettere, che favorisce il confronto di scrittori, poeti, pittori, fotografi, musicisti e autori creativi di tutte le arti, che vogliono dare un contributo alla riflessione su temi di interesse individuale e sociale. Numerose sono le conferenze, i convegni e le presentazioni di libri di soci. La qualità di socio si acquista con il tesseramento e la partecipazione attiva alle iniziative di sperimentazione narrativa, poetica e pittorica. Le attività culturali sono gestite in regime no profit. La sede dei cenacoli è a Bologna.

Blog: http:// movimentoletterariounidiversita.blogspot.com

Per informazioni: Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto

- cell. 349 4969393 tel. 051 6447608 (ore serali)

e-mail: giuseppina.rossitto@gmail.com

RIVISTA QUADERNI ORGANO DELL'ASSOCIAZIONE

DIRETTORE EDITORIALE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO

ROMANZI COLLETTIVI

CURATRICE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO


sabato 12 giugno 2010

CICLO DI CONFERENZE E CONVEGNO: VIAGGI ALLA RICERCA DELL'UMANO: IL MEDITERRANEO DA OTTOBRE 2009 A MAGGIO 2010

ALCUNI FASCICOLI DELLA COLLANA: VIAGGI ALLA RICERCA DELL'UMANO:


IL MEDITERRANEO


cura di Giuseppina Rossitto



autori: Davide Monda, Vladimiro Zocca, Federico Palmonari, Gianni Balduzzi, Fosca Andraghetti, Giuseppina Rossitto, Grazia Maria Schirinà, Sebastiano Burgaretta, Benito Marziano.












PROGRAMMA DEL CONVEGNO
5-6-7-8– MAGGIO 2010

Viaggi alla ricerca dell’Umano. Il Mediterraneo

Mercoledì 5 Maggio
Il Mediterraneo come incrocio di culture: Ravenna e l’arte del mosaico antico.
Cervia, il mare. Gita turistica in pullman, ritorno a Bologna in serata.

Giovedì 6 Maggio, ore 16:00
VII Conferenza: Il carattere malinconico e il pessimismo della cultura mediterranea. Profili nel percorso poetico e narrativo di Benito Marziano (Noto). Ne parlano con l’autore: Prof. S. Burgaretta, scrittore; Prof. G. M. Schirinà, esperta di teatro antico; Dr. G. Rossitto, poetessa.

Sala Stefano Benassi, Lo Specchio di Alice, Via del Pallone, 8 - Bologna

Venerdì 7 Maggio, ore 16:00
VIII Conferenza: La ricerca di Sebastiano Burgaretta, tra poesia ed etno-antropologia (Avola)
Ne parlano con l’autore: Prof.ssa G. M. Schirinà, Presidente Ass. Culturale “Gli Avolesi nel mondo”; Dr.ssa G. Rossitto, Presidente Ass. Culturale Lo Specchio di Alice.

Sala Stefano Benassi, Lo Specchio di Alice, Via del Pallone, 8 - Bologna

Sabato 8 Maggio, ore 16:00
IX Conferenza e chiusura del ciclo.
Presentazione del libro: Giuseppina Rossitto, I viaggi del ritorno.
Il tramonto della Freccia del Sud.
Lettura di passi, ricreando l’atmosfera degli scompartimenti della Freccia del Sud. Ne parlano con la scrittrice: Prof. S. Burgaretta, scrittore e ricercatore etno-antropologo, Prof.ssa G. M. Schirinà, esperta di teatro antico

Sala Conferenze del Baraccano, Via Santo Stefano, 119 - Bologna



Relazioni:

I legame con il Mediterraneo si manifesta soprattutto con l’incontro di culture
Viaggi alla ricerca dell’Umano
di Giuseppina Rossitto


La voglia di essere viaggiatore incantato è sempre più presente negli individui. Non si viaggia più per esplorare, non vi è parte del mondo che non sia conosciuta o conoscibile, ma per il piacere, per conoscere altre terre, soprattutto lontane. A volte gli itinerari mi sorprendono. Sento amici e conoscenti che vanno sempre più lontano: Tanzania, Kenia, Madagascar, Egitto, Marocco, Tunisia, Cile, Messico, Brasile, India ecc. Molto ambite sono le mete verso paesi del terzo mondo. In verità, questi paesi mi sono molto familiari, non come esplorazione turistica, ma come meta quotidiana nella scelta di mercati finanziari in cui investire, e lo faccio senza subire lo stress del viaggio, ma quello di individuare un trend in salita.
Mi sono chiesta come mai, considerata questa grande voglia di viaggiare, dalle Alpi alle isole, di sentire addosso il fuoco del deserto, l’Africa, che ti lascia il “mal” dentro, quando l’Africa viene, poi, da noi, con i suoi mille volti e mille colori, o l’oriente, con i suoi veli e le sue moschee, non abbiamo lo stesso interesse alla conoscenza, anzi ci sentiamo minati, destabilizzati e i colori diventano quelli dell’indifferenza, grigi e opachi.
Da questa riflessione, qualche mese fa, è sorta l’idea, e soprattutto l’esigenza, di esplorare il Mediterraneo alla “ricerca dell’Umano”, attraverso la testimonianza di viaggiatori illustri di un tempo e viaggiatori del nostro tempo.
Trovare amici con cui affrontare questo percorso non è stato difficile, e neanche avere un pubblico sensibile che sapesse ascoltare e guardare con un occhio più attento alla dimensione umana nel Mediterraneo. Così è nato un ciclo di conferenze e la collana, che ho il piacere di curare, tutta dedicata al Mediterraneo.
I primi amici coinvolti in questo “viaggio” sono stati il Prof. Davide Monda, storico della letteratura, francesista, filosofo, che assieme allo sprono interlocutorio del Prof. Federico Cinti, ci hanno trascinati in “Paesaggi naturali come paesaggi dell’anima fra Rinascimento e Romanticismo”, attraverso itinerari di viaggiatori di rilievo sensibili alle grazie del nostro paese. Numerosi viaggiatori che, fra il Cinquecento e l’Ottocento, percorsero l’Italia da nord a sud – ci dice Monda - diversamente dai viatores della Via Francigena, si riproponevano un vero e proprio pellegrinaggio culturale. Spesso l’itinerario – come forse accade ancor oggi ai turisti meno disattenti – rappresentava una sorta di metafora della vita, che inevitabilmente diveniva pure un percorso “di formazione”, a tal segno che molti sentirono il bisogno di fermare sulla carta – in appunti, memorie, riflessioni – le tappe salienti dei loro viaggi, dando così origine a un fortunato genere letterario. Montagne possedeva quella che è la dote più importante del viaggiatore autentico, ovvero la consapevolezza di non essere superiore a nessuno: gli piaceva adeguarsi alle peculiarità territoriali, senza preconcetti. Anche Montesquieu, visitando Napoli, ne ammirò le bellezze naturali e monumentali, e assistette alla famosa liquefazione del sangue di San Gennaro, dinanzi alla quale mostrò una tollerante saggezza, comprendendone lo straordinario significato consolatorio per quella popolazione. Goethe, le cui mete furono innanzitutto Roma e l’Italia mediterranea, per tutte le suggestioni classiche, preferì la Sicilia, la terra ove scoprì quella connessione inscindibile fra mondo naturale e mondo spirituale. L’ingenuità pagana, la naturalezza della vita dei popoli del Sud, rappresentarono, per lui la felicità, l’integrità.
Il secondo amico coinvolto in questo viaggio è stato il Prof. Vladimiro Zocca, ricercatore di estetica e critico d’arte. Mi interessava che facesse emergere il profilo filosofico del viaggio nel Mediterraneo, dove colori e creatività si plasmano in un tutt’uno. E, difatti, Zocca ci ha introdotto al tema dell’Uomo alchemico come uomo del grande viaggio, alla ricerca incessante della creatività nel profondo dell’umano. Può affermarsi – ci dice Zocca - che gli Alchimisti mediterranei abbiano aperto, all’umanità avida di apprendere, il senso del grand tour per le terre del mondo, quale viaggio di formazione personale. Intraprendere un viaggio, percorrere una via, vuol dire vivere, impiegare, consumare del tempo; allora è necessario saper leggere il tempo nello spazio attraversato dal nostro corpo fatto di carne vivente. Questa ricerca dell’individuo non si svolge in modo lineare: ogni alchimista professa la “sua” alchimia, nella soggettività della libertà; non sempre prende la strada giusta, quindi è un viaggiatore errante negli spazi che il suo corpo percorre e nell’interiorità del corpo che si porta dietro.
Questi approcci teorici hanno preparato il terreno e indotto gli altri autori, e i poeti che hanno introdotto ai vari temi, a focalizzare l’attenzione su aspetti umani della loro esperienza di viaggio, narrato per immagini e riflessioni.
Così il Prof. Federico Polmonari, docente di Fisica Unibo, ha aperto la sua esperienza di viaggio alla ricerca del Cristo uomo in terra di Galilea. Gli è venuta voglia – dice - di immaginare come poteva essere la vita dell’uomo che percorreva quella terra predicando la buona novella, quel Gesù che gli ha insegnato a trovare Dio in ogni uomo che incontra. Oggi, nel tempo della globalizzazione, viene naturale domandarsi chi era questo ebreo di Galilea. I viaggi in Terra Santa sono incentrati sulla iconografia classica, la nascita a Betlemme, l’infanzia a Nazaret e soprattutto la passione, morte e resurrezione a Gerusalemme. Un viaggio diverso il suo, sulle strade della Galilea, per ritrovare le tracce della storia di questa terra, percorsa in lungo e in largo da un uomo che si era fatto conoscere per le sue doti di maestro. Ha ripercorso – ci dice Polmonari - quelle campagne e quelle strade cercando di immaginarne il paesaggio venti secoli prima: i campi di grano, le vigne, gli ulivi, gli alberi di fico dei racconti evangelici. Ha trovato una terra ridente, uno dei più bei paesaggi tipicamente mediterranei: colline verdeggianti che si aprono su ampi panorami, distese di grano e strisce di terreno coltivate, pendii che degradano dolcemente fin sulle rive del lago di Galilea, acque pescose che irrigano una terra felice. Una terra felice e tuttavia collocata al crocevia di tante civiltà, di tante nazioni che nei secoli si sono scontrate. Una terra felice anche oggi, nella modernità e nel visibile sviluppo economico dello stato di Israele, che contrasta però con l’aspetto più dimesso dei territori palestinesi. Questo contrasto, più o meno evidente nei villaggi e nelle campagne, palesa tutto il dramma di una terra senza pace, dove un muro è stato costruito per separare popolazioni che si odiano, fratelli cresciuti insieme che non si rassegnano alla loro diversità.
Che dire, una bella strada quella aperta da Polmonari, religione e convivenza umana. L’invito è stato raccolto da un altro amico, il Prof. Gianni Balduzzi, il quale ci ha trasferiti nell’incanto della terra di Giordania e Petra: tra mito e convivenza umana. Petra – ci dice Balduzzi - è uno dei luoghi dove il fascino del passato si coniuga col mito della scomparsa e del ritrovamento. Non è facile descrivere le città della Giordania, la ricchezza dei loro colori e dei negozi che si aprono sulle strade offrendo prodotti molto diversi, dell’artigianato locale a quelli, più dozzinali, del mercato internazionale; il via vai delle persone, vestiti in fogge diverse, da quelle occidentali a quelle tipicamente arabe. La cosa più emblematica, della disposizione della Giordania ad accogliere e valorizzare le differenze, è che vicinissima ad una Moschea c’è una chiesa cristiano-ortodossa funzionante, come tutti i templi non musulmani presenti. Per le strade si mescolano donne vestite sobriamente all’occidentale a donne con lo chador e col burqa: anche questo è un segno di tolleranza. Uno dei posti dove è più facile entrare in contatto con “la gente” è il mercato: qui, accanto alle vetrine dei negozi molto invitanti, si trovano personaggi più commoventi, come un vecchio palestinese che vende prezzemolo o il ragazzo che contratta i ravanelli. Hai sempre l’impressione di fare un buon affare quando acquisti qualcosa, dopo aver contrattato per un poco.
Colori dunque per le strade del Mediterraneo, gli stessi che ritroviamo nel Marocco dai mille volti e dai mille colori di un’altra amica, Fosca Andraghetti, che ha fatto dei suoi viaggi dei veri e propri diari narrativi e versi poetici, come quelli di seguito che dicono tutto sulla sensibilità del suo essere viaggiatrice e poeta.



A chiusura del Ciclo, il Convegno/ Incontro a Bologna, dal 5 all’8 Maggio 2010, che vede interessate due associazioni culturali: Lo Specchio di Alice, di Bologna e Gli Avolesi nel Mondo, di Avola, con un ricco calendario di iniziative.
Un viaggio, breve per noi di Bologna, più lungo per gli amici siciliani, a chiusura del ciclo di conferenze: Il Mediterraneo come incrocio di culture: Ravenna e l’arte del mosaico antico e moderno; Cervia, il mare e l’uomo - Viaggio turistico, organizzato in segno di ospitalità agli amici dell’Assoc.ne “Gli Avolesi nel Mondo”.
Poi di nuovo calarsi nella cultura mediterranea, attraverso il pensiero poetico e narrativo di autori contemporanei.
Abbiamo iniziato con Benito Marziano, poeta di Noto, e Il carattere malinconico e il pessimismo della cultura mediterranea e nel suo percorso poetico e narrativo. Il Prof. Sebastiano Burgaretta, docente di lettere e scrittore, analizzando l’opera di Marziano ci dice che essa si sviluppa attorno al dramma dell’esistenza dell’uomo, nel sottofondo di pessimismo che si configura - a suo parere - sostanzialmente nel dualismo dialettico comunicabilità-incomunicabilità.
Accanto a questo nucleo centrale incisiva valenza assume, nella trama di bella scrittura in cui si concretizza la creatività letteraria di Marziano, quasi in tutti i suoi racconti, la capacità affabulatoria dell’uomo, che viene fuori nel piacere del raccontare, nella giocosità e nell’apertura umoristica, che, sul versante della comunicabilità, accompagnano autore e personaggi lungo la linea, spontanea ma consapevole, di una ricca e variegata memoria letteraria e personale.
L’analisi che fa Marziano – ci dice la Prof.ssa Grazia Maria Schirinà, docente di lettere antiche - scava nel profondo e propone il dramma esistenziale dell’uomo con le sue debolezze, i suoi timori, le sue ansie. Ne viene fuori il ritratto di un’umanità che soffre e giustifica, che ha bisogno dell’altro per trovare la sua vera dimensione.
Un altro profilo della cultura meridionale ci viene dal Prof. Sebastiano Burgaretta, scrittore e poeta di Avola, soprattutto studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e che ha dato alle stampe centinaia di articoli e tanti volumi.
Le sue riflessioni sull’esistenza umana – ci dice di lui la Prof. Schirinà - si fanno sempre più frequenti e meditate, mentre l’impegno verso gli ultimi lo porta ad aiutare, con la parola e il conforto, i carcerati della casa circondariale di Noto e quanti gli si rivolgono telefonicamente, tramite un’associazione contro qualsiasi tipo di abuso, specie sui minori.
Parliamo quindi di antropologia, di ricerca, di collezionismo… Il collezionismo è anche alla base degli interessi antropologo–culturali di Burgaretta il quale raccoglie con amore raro, tutti gli oggetti, anche se rotti, che testimoniano il passato: cura e attenzione, perché in ogni cosa c’è un pezzo della nostra storia.
Burgaretta è un cultore della lingua mediterranea, che analizza e adopera indifferentemente creando suoni e ritmi all’interno delle sue poesie che, così, assumono una musicalità fuori dal comune. Fra le sue poesie non possiamo non ricordare: Quel 2 dicembre.

A chiusura del Convegno, I Viaggi del ritorno. Il tramonto della Freccia del Sud, di Giuseppina Rossitto, un libro che vuole essere una “collezione di affreschi in parola”, il completamento della quarta angolazione di un disegno – la ricerca dell’Altro. Una Freccia, che non trasporta più solo indigeni o indigenti in cerca di “nuove speranze”, ma studenti, professori, turisti, popolo comunitario ed extracomunitario integrato. Insomma, un treno di livellamento sociale.
Sin dalle prime battute – osservazione critica della Schirinà - emerge l’impegno sociale e politico che ha caratterizzato la visione del mondo e della vita dell’autrice.
Tra i motivi letterari spicca il nostos, il viaggio di ritorno che, concretizzandosi in una esperienza di partecipazione consapevole alla vita degli altri, per la progettualità dell’impegno intrapreso, tuttavia è come un salto verso l’ignoto. Una parte influente, in questo quadro armonico, la detengono i colori e la lingua abbinabili ai comportamenti e al modo di essere delle persone che, tramite essi, vengono identificati; ma anche i colori della natura che colpiscono i sensi della scrivente.
Non troviamo qui, come in altri autori che hanno affrontato il tema del viaggio in treno, elementi surreali, assurdi e fantastici. Il treno in questione non simboleggia l’ineluttabilità del male che segna una esistenza disperata di individui malati o psicologicamente deboli, bensì persone che vivono accettando il loro viaggio nella vita di tutti i giorni, che è scoperta dinamica esistenziale e memoria interpretativa.


Sull’opera di Benito Marziano
di Sebastiano Burgaretta


L’opera complessiva di Benito Marziano si sviluppa attorno al dramma dell’esistenza dell’uomo, in un sottofondo di pessimismo che si configura, a mio parere, sostanzialmente nel dualismo dialettico comunicabilità-incomunicabilità. Accanto a questo nucleo centrale incisiva valenza assume, nella trama di bella scrittura in cui si concretizza la creatività letteraria di Marziano, quasi in tutti i suoi racconti la capacità affabulatoria dell’uomo, che viene fuori nel piacere del raccontare, nella giocosità e nell’apertura umoristica, che, sul versante della comunicabilità, accompagnano autore e personaggi lungo la linea, spontanea ma consapevole, di una ricca e variegata memoria letteraria e personale. Con i vari agganci, che le problematiche toccate evocano, ora di tipo pirandelliano, ora di tipo boccacciano, ora di atmosfera sciasciana, ora di sapore paesano, sfilano, davanti alla nostra memoria e/o ai nostri occhi, personaggi imparentati con nobili antenati, per esempio, con l’uomo dal fiore in bocca, con la fascinosa Alatiel della settima novella della seconda giornata del Decamerone, con Gostanza da Lipari, colei che, con animo e determinazione tipicamente femminili, avviluppatasi la testa in un mantello, nel fondo della barca piagnendo si mise a giacere... e al vento tutta si commise nella seconda novella della quinta giornata sempre del Decamerone. Gli scherzi di Giorgio Carratore richiamano alla mente quelli intercorsi tra Biondello e Ciacco nell’ottava novella della nona giornata ancora dell’opera boccacciana. Riaffiorano anche, lungo le note dell’affabulazione e le trame, magari involontarie, delle beffe e dello sviluppo grottesco di alcuni racconti, personaggi di tipo sciasciano, come, per esempio, quelli di Quando non arrivarono i nostri. Rivivono, infine, personaggi pittoreschi e strani, propri di certe leggende metropolitane, ma, ahimè, propri anche di certe realtà paesane come quelle delle liete agorà di quartiere di una volta che erano le frequentatissime sale da barba. E sfilano persino figure come quella di Peppino Laganà, che più che dalla fantasia dell’autore, sembra, in tutta evidenza, uscita da qualche episodio creativo di vita goliardica, uno fra i tanti, tra quelli che ama coltivare un libraio editore di mia conoscenza. Al lettore, perciò, il piacere di scoprirsi e di ritrovarsi immesso in così amena compagnia.
Temi e ascendenze letterarie e memoriali sono, però, trattati dall’autore liberamente, con taglio assolutamente personale. Basti pensare, per esempio, al rovesciamento dello schema pirandelliano che Marziano opera nella vicenda di Tonino Ventura in Condannato a morte. Qui, infatti, il dramma personale fa precipitosamente emergere quello familiare, e la vita di relazione ha il sopravvento su quella interiore, per cui il rischio del ripiegamento su di sé è superaro dalla rabbiosa reazione del protagonista, che vive il suo problema con lucida consapevolezza, se è ancora in grado di guardarsi come in uno specchio attraverso la puntuale citazione pirandelliana. E poi la potenza del caso, che, in Come in un puzzle, si risolve, questa volta, positivamente.
Casualità, equivoci, solitudine umana, condizionamenti sociali, differenze generazionali, isolamento ed emarginazione, consumati talvolta fino al suicidio, delle persone ritenute socialmente inattive, insieme con egocentrismo e fragilità psicologica, chiusure mentali etc... costituiscono il reticolo resistente attraverso il quale si ordisce, come in una tela, la trama del tessuto di vita di relazione tra gli uomini. II tutto in un sottofondo di contenuta malinconia e di pena sottile che permea, dove più dove meno, tutti i cinque racconti della silloge.
È, tuttavia, attraverso il difficile e accidentato cammino all’interno di questo reticolo che si sviluppa la capacità di ascolto umano che caratterizza i racconti, sgorgando dal versante della residua capacità, che l’uomo conserva, di comunicare e forse anche di avere pietà. Una capacità di ascolto e di apertura umana che è probabilmente il messaggio di speranza recondito del libro, vista che è proprio dell’autore, così come lo è dei personaggi, nell’uno e negli altri di fatto, se non di professione.
Malinconia esistenziale e capacità di introspezione si coniugano, con felicità creativa ed eleganza verbale, tanto nella produzione in prosa, come nel già considerato Don Agostino Salvìa e altri racconti e nel romanzo Juliette cara, quanto nella produzione in versi, come in Altri anni e Sisifu.
Si intrecciano e convivono dialetticamente, in tutte le opere di Marziano, le due dimensioni di ogni esperienza autenticamente culturale e creativa: quella del soggettivismo lirico personale e quella dell’oggettivismo sociale, con allusive sfumature politiche e riferimenti storici alla realtà del mondo in cui vivono i suoi personaggi, molto probabilmente perché l’autore stesso responsabilmente ci vive già.
Il pessimismo esistenziale della sfera soggettiva trova rispondenza in quello legato alla realtà oggettiva della società in cui l’autore vive.
In tutto ciò si eleva e vince la parola, con la sua funzione analitica, la sua valenza affabulatoria e il suo effetto terapeutico e quindi liberatorio. Lo dimostra chiaramente la chiave sottilmente e malinconicamente ironica, che accompagna il tono e l’atmosfera di smagato pessimismo, che regnano nei racconti. Ma lo dimostra altresì il bisogno, che Ennio Corsini, protagonista di Juliette cara, ha, di scrivere una lunga, unica lettera, che non spedirà mai, ma che ha un’importanza risolutiva in tutta la storia raccontata.
Il protagonista di questo romanzo con questa lettera può chiudere, grazie all’uso sapiente e analitico della parola salvifica, una partita, più che con Aldina-Juliette, con sé stesso, sia come uomo, sia come cittadino. In questo romanzo, ultima opera data alle stampe da Marziano nel 2009, si fondono, con analisi puntuale ed eleganza stilistica, il soggettivismo e l’oggettivismo cui ho fatto riferimento.
E tutto questo non avviene a caso, certamente. Infatti Benito Marziano ha esordito in pubblico da adulto con le sue opere letterarie, ma ha un vissuto di uomo attento alla vita, di professionista encomiabile, di cittadino con un proprio sofferto e coerente cammino politico sociale.


La cultura e la parola in Sebastiano Burgaretta
di Grazia Maria Schirinà


Parlare di Sebastiano Burgaretta, per me, non è cosa facile, in primis per la grande amicizia che ci lega da tempo immemorabile e inoltre per il rispetto che nutro nei confronti della sua arte, del suo sapere, del suo impegno. La sua attività, credo nasca con lui, curioso, ordinato e attento com’è a tutto ciò che lo circonda. Dico ciò per esperienza diretta, in quanto, se gli si chiede un articolo anche di decenni fa, lui è in grado di trovarlo senza difficoltà, perché ben conservato e catalogato, se non attraverso una strumentazione, senz’altro nella sua mente dotata di una formidabile memoria.
Stiamo parlando di uno studioso che ha dedicato tutta la sua vita alla ricerca e che ha dato alle stampe centinaia di articoli, non ancora di volumi, ma poco ci manca. Le sue riflessioni sull’esistenza umana si fanno sempre più frequenti e meditate, mentre l’impegno verso gli ultimi lo porta ad aiutare, con la parola e il conforto, i carcerati della casa circondariale di Noto e quanti gli si rivolgono telefonicamente, tramite un’associazione contro qualsiasi tipo di abuso, specie sui minori. E se “il buon giorno si vede dal mattino”, come recita un vecchio adagio, quale sarebbe stato il suo modo di essere, avremmo dovuto dedurlo dall’impegno profuso in Sud-America, dove si recò per tre mesi, poco più che ventenne, nel 1972, nel quadro della preparazione del Concilio dei Giovani, celebratosi a Taizé.
È dunque una personalità completa, complessa e impegnata, ma noi qui stasera vogliamo parlare di poesia e di studi etno-antropologici, cioè quegli studi che permettono di conoscere l’uomo nella sua dimensione reale; a questi il nostro studioso si è dedicato sin dalla giovane età, e che fosse da subito in gamba lo testimonia Antonino Uccello, noto antropologo, che lo invitò a collaborare con lui nella realizzazione di alcuni volumi. Per chi non lo sapesse, Antonino Uccello, letterato, poeta, studioso di tradizioni popolari, nel 1960 acquistò un'ala di un palazzo, del Palazzo Ferla, “con il preciso intento di collezionare al suo interno tutti gli oggetti-testimonianze di un passato neanche tanto lontano, ma bistrattato dalla voglia di modernizzazione” (Iriza Alma Orofino); io ricordo di averlo conosciuto tramite mio padre che, suo coetaneo e come lui insegnante elementare, ne aveva seguito gli interessi e i sogni. Parliamo quindi di antropologia, di ricerca, di collezionismo…
Il collezionismo è anche alla base degli interessi antropologo – culturali di Sebastiano Burgaretta il quale raccoglie con amore raro, tutti gli oggetti, anche se rotti, che testimoniano il nostro passato: ricordo che tempo fa, parlando di pastori del presepe, mi raccomandò di non buttarli, ma di curarli e attenzionarli, perché in ogni cosa c’è un pezzo della nostra storia. Chi si trovasse ad andare a casa sua, in particolare nel suo studio, a parte la squisita accoglienza, si troverebbe immerso in un ambiente pieno di bacheche contenenti raccolte di ogni genere, dai presepi appunto, ai fischietti, alle icone, ai santini (evidentemente non in esposizione), etc… e poi libri, riviste, giornali… il tutto ordinato meticolosamente.
Ho detto di Antonino Uccello, ma devo dire ancora che la nostra cultura siciliana e mediterranea, ha avuto nel tempo studiosi di valore, quali il Pitrè, Salomone Marino, Guastella, Avolio; ebbene il prof. Burgaretta è stato assimilato per spessore, competenza, conoscenza dell’argomento e cultura e questi grandi studiosi della nostra letteratura etno-antropologica; tempo fa, durante una presentazione, mentre lui non ci ascoltava, un editore presente, complimentandosi per l’attività culturale che si tenta di portare avanti ad Avola, mi fece rilevare che dovevamo sentirci onorati, e lo siamo, della presenza del Burgaretta perché, mi disse, “la sua parola è legge. Nel campo degli studi di cui parliamo”, continuò, “ci sono molti che scopiazzano e dicono così la propria. Burgaretta non è di tal fatta; quando lui parla si può stare tranquilli che le cose stanno così come lui le propone, perché non solo si documenta, ma affronta gli argomenti andando a rovistare di persona, intervistando e raccogliendo materiale di prima mano.
Io lo sapevo e ne ero convinta già da tempo, da quando, alla fine degli anni Settanta ebbi con lui una discussione circa pupi e pupari di Sicilia. All’epoca, io avevo fatto assistere i miei alunni a una rappresentazione di “Opera dei pupi” e avevo fatto intervistare il puparo; tenevo gelosamente quell’intervista e l’avrei con piacere commentata con lui se, non so come, ma con mio grande disappunto, non avessi trovato nel nastro delle belle canzoni al suo posto. Io misi da parte quasi subito quel mio interesse, dettato più dalla contingenza che da altro, lui invece continuò a interessarsene come dimostrano non solo l’intervista al puparo Don Ignazio Puglisi, datata 27 luglio 1982, ma tutti quegli articoli interessantissimi sulle tradizioni popolari, concernenti i carretti siciliani, la vita agricola, marinara e pastorale, i canti popolari e le filastrocche, le dimore rurali, le feste, la religiosità popolare etc… Risale al 1982 una pubblicazione dell’Università di Bari contenente un suo articolo dal titolo “Filastrocche fanciullesche siciliane” in cui afferma che è un dato accettato da tutti gli studiosi del folclore che le filastrocche fanciullesche siano legate a gesti e a riti primitivi “relativi a danze, a sacrifici e ad altre cerimonie sacre rivolte a favorire la convivenza sociale o a propiziare la crescita e il raccolto dei frutti della terra[1]” e che “questi componimenti, pur con la ricchezza fantastica e i richiami immaginosi e talvolta irreali in essi contenuti, si rifanno quasi sempre ai contenuti della vita reale, dell’iter quotidiano del mondo degli adulti, dei quali ripetono gesti e ripropongono momenti e situazioni precise. Della vita degli adulti le filastrocche riprendono ogni aspetto, riproducendone, si può dire in toto, i condizionamenti e i connotati caratteristici[2]”. Si tratta di una lettura in senso antropologico del gioco attraverso il quale si dà voce alla cultura popolare. Da quella data fino ai nostri giorni continua a pubblicare in riviste e giornali su argomenti di tipo etno-antropologico. “Il tesoro di un popolo sta nel recupero delle sue memorie, nel lavoro che è un inno alla libertà, alla dignità, ai rapporti umani”[3], dice Burgaretta in un’intervista in cui si evidenzia il valore dell’antropologia culturale.
Sebastiano Burgaretta, acuto osservatore della realtà siciliana, individua le matrici culturali atte a esprimere le caratteristiche del popolo e le individua nella dimensione agro-pastorale. “In venti saggi,…Burgaretta penetra nel cuore della Sicilia, facendo leva sulle stratificazioni religiose, storiche e antropologiche dei comportamenti delle genti siciliane[4]”. La scrittrice Maria Lucia Riccioli, che ha intervistato l’autore, in un suo commento scrive: Dopo anni di indifferenza nei confronti di certi studi, dopo certo disprezzo verso il retaggio dei nostri avi, ritenuto a torto un ostacolo nel cammino verso la modernizzazione della Sicilia, si assiste ad una stagione di recupero di quello che vengono ormai definiti beni etnoantropologici; l’eredità culturale di un popolo è un bene, un valore da recuperare, tutelare, valorizzare e diffondere per permetterne la fruizione[5]. L’opera è stata presentata anche dall’Associazione che ho l’onore di presiedere “Gli Avolesi nel Mondo”, il 15 aprile del 2009. In quell’occasione sono intervenuti il prof. Angelo Fortuna, prefatore del volume, Corrado Di Pietro, poeta ed etnologo e l’editore. Corrado Di Pietro chiarisce che si tratta di un viaggio nella cultura popolare siciliana, attraversano non solo i territori geografici dell’isola, ma anche i più vasti territori spirituali ed etnoantropologici della nostra gente[6]. L’opera “Di Spagna e di Sicilia”, del 2001, che raccoglie articoli su autori siciliani e stranieri, è considerata da Silvana Grasso, scrittrice di notevole valenza artistica, “Il palcoscenico letterario che dividono scrittori poeti pensatori, spagnoli e siciliani, affratellati da un dna emotivo e culturale, passionale e sciabolante tale che l'indimenticabile Leonardo Sciascia non esiterebbe oggi a confermare che andare per la Spagna è, per un siciliano, un continuo insorgere della memoria storica, un continuo affiorare di legami, di corrispondenze. L'occhio acuto di Burgaretta mosso da apuleiana curiositas fiuta analogie, scava col seghetto dell'archeologo nel misterioso dedalo delle genie culturali sicule-ispane, con curiosità itinerante e intuizione rabdomantica.... Tornando all'Avolese, Jano Burgaretta è personaggio onnipresente nel suo territorio, a volte protagonista, altre deuteragonista, altre ancora, semplice comparsa. È preziosa Vestale, il professor Burgaretta della storia travagliata della sua Avola come dell'alchimia di certi personaggi di cui persino la famiglia genetica, anagrafica ha perso memoria”.
Il nostro autore, sta attraversando un periodo di grande entusiasmo lirico che gli permette di creare opere di ampio respiro in men che non si dica. Mi riferivo dunque al volume“Non è cosa malcreata, volume comprendente indovinelli per così dire “osceni”. Ma si sa che gli indovinelli giocano tutti sul doppio senso e suscitano spesso il riso proprio per questo. Quest’ultima opera, che si riallaccia alla prima, evidenzia come l’impegno nella ricerca e l’interesse verso forme di tradizione popolare non sia mai venuto meno, anzi le raccolte si sono fatte sempre più ricche e complete nei temi e nelle argomentazioni. “Si tratta di una letteratura popolare, anonima, variamente articolata e contaminata anche da prestiti e varianti provenienti da altre regioni ma a sua volta capace di farsi modello e fonte ricchissima di spunti e di motivi, in un vicendevole scambio di espressioni e di forme letterarie”. “Bisogna … tener presente – scrive Burgaretta - che gli indovinelli non erano tirati fuori come per un artificio strambo né per motivi maliziosi. Essi erano parte fondamentale e positiva di un rito collettivo, che vedeva le famiglie di un quartiere o di una strada di paese riunirsi la sera, dopo cena, per trascorrere il tempo in modo sano e proficuo (…) il rito comunitario domestico aiutava i piccoli a crescere senza malizia fuori contesto e ad essere cooptati e gradualmente inseriti nella norma della vita quotidiana nella comunità adulta di appartenenza. Nella pregevole introduzione di Sebastiano Burgaretta troviamo la chiave di lettura di questi indovinelli, che da una originaria espressione dialettale vengono resi in un moderno linguaggio italiano. Ivi leggiamo convincenti significazioni del concetto di osceno, che da una primitiva lussuriosità assurge a un principio di naturalità intensamente vissuta. E questa osservazione è meritevole di attenta valutazione... Una lettura psico-antropologica della vera anima siciliana, che è avvolta nel velo di una sottile ironia, nel considerare la propria vita e la vita altrui. Ma questa ironia conduce a quel senso di solitudine che è tipicamente siciliano…Gli indovinelli, così come i proverbi, erano il … soliloquio (del contadino), si tramandavano di generazione in generazione, in quanto appropriati ai vari accadimenti della vita. .. l’indovinello, come il proverbio, ritmava la sua cadenza esistenziale, era in fondo la sua pedagogia. Scetticismo e ironia il suo abito mentale, l’ironia come tendenziale dissoluzione di pregiudizi, di usanze, di miti, ma anche come una istintiva tendenza anarcoide che ha avuto sempre nei contadini imprevedibili e causalmente indecifrabili esperienze”.
Burgaretta, consapevole del valore di quanto da lui espresso, facendosene quasi uno scudo, ama dire che l’ironia è quella che ci salva dalle intemperie della vita, quella goccia che diventa saggezza e ci fa oltrepassare i problemi contingenti del nostro quotidiano. Abbiamo trovato un cenno all’espressione dialettale resa in lingua italiana, ma dobbiamo anche dire che il nostro autore è un cultore della lingua mediterranea, che analizza e adopera indifferentemente creando suoni e ritmi all’interno delle sue poesie che, così, assumono una musicalità fuori dal comune.
Prima però di addentrarmi nella poesia, lasciatemi fare un cenno alla composizione di un’opera che ha già visto la terza edizione e che per il nostro patrimonio locale, ma anche per tutta l’Italia, ha un grande valore storico sia per l’opera di ricerca che da lui è stata portata avanti attraverso fonti e documenti, sia perché è stato testimone dei fatti, come, se non più di tutti noi che, all’epoca, eravamo studenti in Avola. Parlo della documentazione preziosa inserita ne I fatti di Avola, un testo conosciuto da tutti gli storici che si interessano dei diritti dei lavoratori e della storia sventurata di quegli anni che, dopo, furono gli anni di piombo. Su questo stesso argomento ha inoltre pubblicato, nel 2008, una lunga poesia Rrèpitu per il due dicembre, che la sera del 2 dicembre 2009 è stata recitata da attori professionisti nel cineteatro “Odeon” della città, con accompagnamento musicale. Sebastiano Burgaretta, nella sua veste di studioso si è interessato anche di questo evento, ma nella sua ricerca si è interessato anche di problemi più intimi e spirituali, come il volume relativo alla conversione di Alessandro Serenelli”, l’uccisore di santa Maria Goretti, rinchiuso per tanto tempo nella casa circondariale di Noto. Per Noto ha anche curato la traduzione dal siciliano de La vita del beato Corrado Confalonieri, ma per sé ha tradotto La casa di Bernarda Alba di Federico Garcia Lorca e, in siciliano, il Simposio di Platone.
Lo strumento linguistico nelle mani dell’autore diventa plasmabile e, nel tempo, sempre più ricco e emotivamente coinvolgente. L’autore, credente, ha una forte spiritualità che lo porta a meditare sui casi della vita sempre con ottimismo e, come si diceva prima, con grande ironia. Dice Silvana Grasso: “Jano Burgaretta, per chi non lo conoscesse, è l'incarnazione dell'intellettuale ellenistico, di quel Callimaco che alla corte dei Tolomei ad Alessandria, nel terzo secolo a. C., funambolizzava saperi diversi, spesso ossimorici, dalla filologia alla scienza, dalla fabula mitologica all'encomio, dalla prosa alla poesia. Una figura oggi pressoché scomparsa quella del letterato “polifonico”, cancellata, divorata dalla frigida specialità dei saperi, dal chiostro della specializzazione, dalla clausura della singolarità scienza, dalla circoncisione della tridimensionalità “genetica” del sapere”[7]. Non posso che essere in sintonia con la Grasso, conoscendo la poliedricità non solo del sapere, ma anche e soprattutto dell’impegno di Burgaretta, cosa che si nota anche nelle poesie che sono la cosa più intima che un uomo, un poeta, possa esprimere. Ricordo il pudore di mio padre quando gli amici lo pressavano a leggere o pubblicare i suoi versi, lo stesso pudore che ho visto in Sebastiano Burgaretta quando a volte, parlando di poesia, mi ha espresso l’urgenza che sentiva di scrivere e poi mi confessava che in quella scrittura c’era il suo pensiero più intimo. È proprio così; nella costruzione di un personaggio l’autore può, come non può, esserci; nell’espressione poetica c’è senza mezzi termini, l’anima viene messa a nudo e l’opera, passando di mano in mano, rende gli altri partecipi dell’essere poetico che può sì essere compreso nell’accezione del poeta, ma può anche essere frainteso.
Si diceva della lingua adoperata da Burgaretta. Egli in effetti usa indifferentemente sia il vernacolo che la lingua italiana. La lingua di un popolo è anche la storia di quel popolo; il popolo di Sicilia, poiché nei secoli, è venuto a contatto con popoli diversi che hanno lasciato la loro impronta culturale, ha prodotto una lingua ricca e varia nella quale sono compresi grecismi, arabismi, normannismi, catalanismi, francesismi, spagnolismi, etc..., cioè le impronte della storia dell'Isola, fatta di invasioni e contatti con le genti del Mediterraneo e d'Europa. Forse è anche questo che spinge il letterato a conoscere meglio lo strumento linguistico che adopera, affascinato dalla diversità e dal confronto con altri idiomi. Ad esempio per molte parole, comuni anche ad altre lingue, è difficile stabilirne la provenienza. Lo studio del nostro autore e la conoscenza linguistica dell’idioma proprio ma anche di quello di una vasta area del Mediterraneo, lo ha portato, nel tempo, a farne sua la terminologia tanto da inserirla nei suoi componimenti come facente parte di se stesso.
Ma procediamo con ordine. La prima raccolta poetica pubblicata risale al 1992 e porta il titolo Diario del Golf”. In questo primo volume si afferma il messaggio cristiano di salvezza. “In un contesto altamente drammatico, qual è quello di una guerra, che abbiamo troppo rimosso dalla nostra coscienza, il poeta ricerca la salvezza in quel pacifismo, ben lontano dalla viltà, che dovrebbe affermarsi seguendo il messaggio cristiano. Non più tori che scendono nell'arena, pronti ad essere sgozzati tra l'attesa anelante della folla, ma uomini che si riconoscano tali e riaffermino la gioia della vita contro la cultura della morte. I versi vibrano di passione e il loro procedere prosastico tende a rendere più incisiva la durezza della condanna, degli oppressori[8]”. Della seconda raccolta, L’ala del tempo avete già avuto modo di apprezzare la lirica dedicata “A Ibn Hamdis”, pubblicata nei “Quaderni” con traduzione a fianco. Tale testo è in dialetto, come le poesie che compongono la seconda parte di questo volume. L’autore passa con disinvoltura dall’una all’altra lingua, ponendo l’accento sulla memoria che da personale e storica diventa universale. I viaggi, i miti, le città, il mondo familiare e paesano trovano espressione in queste poesie che offrono una galleria di personaggi che assurgono a una dimensione nuova; l’uso del dialetto, anche quando viene tradotto, sembra molto più adatto a rendere la musicalità del verso, più congeniale allo spirito del poeta, atto a “liberare la sua testualità dai lacci e dai freni inibitori delle strutture letterarie della lingua poetica italiana. In Trame del Mediterraneo, Burgaretta, “profondo conoscitore della lingua spagnola, greca e latina, oltre ad essere un etnologo di riferimento e critico letterario, si eleva in una "Anastasis" che svela la sua apertura nei confronti della vita, della genuinità, dei valori universali ad ogni strofa dei suoi componimenti… Avola, la sua posizione geografica, il suo auspicabile ruolo di mediatrice del futuro, non costituiscono un confine, ma un forte stimolo intellettuale, in grado di proiettare l'autore oltre ciò che l'occhio non riesce a distinguere sopra la linea che separa il cielo dal mare. Ma la forza più grande resta sempre quella della parola, soprattutto della parola poetica, come elemento di mediazione, di dialogo, di pace, necessaria allo spirito e alla vita nella sua interezza, per cui sprurenti è-ccampari/senza puisia.
La parola

Ora che il vento soffia con favoree le voci s’intrecciano fluenti,anche i cuori forse sentono il teporeche manca loro spesso nelle brume
Non culla alternative la parola.
Lei sola vive e vivo vuole l’uomo,che solitario si perde nelle selvecol suo machete a scindere liane.I nodi vanno sciolti, non recisi,come le lingue che fanno paradiso.

Parla dentro la parola e paraballaoltre l’onda nel favonio comune.Porto franco, sabir dell’uomo veroche tutto si commette al mare aperto,ammalia da sempre la parola,non cede ai turbini del cielo.
La dimensione religiosa domina gran parte dell’opera poetica e si fa ricerca spirituale sempre più fervida, che esplode quasi nelle successive raccolte proposte in gran parte in dialetto, ma che è frutto di una ricerca formale tutta personale.. Il prof. Salvatore Nigro, nel commento pubblicato da “Avolesi…” afferma che il dialetto usato da Burgaretta, il siciliano è molto ricco e importante, non in quanto dialetto siciliano, ma in quanto lingua di un mondo poetico.
Mons. Greco parla della poesia di Burgaretta come di una poesia dell’anima in colloquio col mondo. Poesia del mondo: poesia di vento, di profumi, di colori. Poesia della memoria e della speranza. Poesia del silenzio e del mistero. Radicata profondamente nella terra…La terra che il poeta canta è una terra avvolta di luce…una terra solare e luminosa. Per questo motivo possiamo definire la poesia di Burgaretta una poesia mediterranea.
Di questa raccolta, fra le tante altre mi piace proporre la lirica La parola.
In effetti Burgaretta, in questa lirica, inserisce il suo credo nel logos, che è anche credo nella incarnazione, come si può evincere dalla spiritualità evidente e mai celata che traspare da tutte le sue raccolte e soprattutto dall’ultima, ancora non presentata, che ha visto la luce in questo primo semestre del 2010, “Sequentia di palmiere. Qui la spiritualità è un percorso che non trova sosta nel cammino della fede, un incedere con passione e sentimento e nello stesso tempo con turbamento e timidezza. Lo stupore di fronte ai luoghi della passione e di tutta la parabola cristiana, la visita agognata[9] a quei monumenti della cristianità, segno di sacralità, si imprimono nell’animo sensibile e desideroso del poeta in modo indelebile. Da qui l’urgenza dello scrivere[10], l’urgenza di rendere tangibile il segno impresso nel suo cuore attraverso l’unico modo che gli è più congeniale: la parola. Dopo aver cantato in tutte le lingue a lui conosciute il mistero percepito, dopo aver contato i luoghi e i momenti salienti dell’antico e del nuovo testamento, dopo aver affondato le mani e le unghie nel suo intimo più profondo, regalando a tutti noi pagine di sublime intensità, quasi commiato, ma preludio ad altro, nell’ultima lirica inneggia alla sapienza e chiede “ora lascia, Signore, che il tuo servo/torni alla misura quotidiana./Vibrare più di tanto non può più/… Amica dell’uomo è la sapienza/riflesso eterno della tua luce/…mi copra potente la sua ombra/affranchi me nella fatica mia,/mi guidi con prudenza nel cammino[11]. In tutta l’opera non mancano mai i riferimenti dotti, né l’autore si trattiene dal citare persone e luoghi del reale vissuto, appartenente sia al passato che al presente, anzi ciò lo inserisce meglio nel contesto socio-politico e gli fa prendere posizione netta nei confronti di alcuni modi di pensare e di agire, dando opportuni stimoli di riflessione a quanti vogliano intenderne il messaggio.


[1] Sebastiano Burgaretta, Filastrocche fanciullesche siciliane, Leo s. Olschki editore, Firenze 1982
[2] Sebastiano Burgaretta, Filastrocche fanciullesche … op. cit.
[3] Maria Lucia Riccioli, é impossibile rinnegare la propria cultura, in “La voce dell’isola” 21/6/2008
[4] Angelo Fortuna, Presentazione a Sicilia Intima
[5] Maria Lucia Riccioli, art. cit.
[6] Corrado Di Pietro, Una sorta di viaggio dell’anima, in “Avolesi nel mondo”, Anno 9, n.2, settembre 2008, pag. 29
[7] Silvana Grasso, La vanità del ritratto, recensione a Di Spagna e di Sicilia
[8]La Sicilia, giovedì 24 febbraio 1994
[9] Da tempo il poeta desiderava visitare i luoghi della Terra Santa, come evidenzia anche nella lirica “Anàstasis” già pubblicata nel volume “Trame del Mediterraneo” e inserita come apertura a questo nuovo testo: Un fiore t’ho mandato/oggi ancora con mio figlio./Non è il primo che t’invio,/né il secondo oramai,/né l’ultimo sento che sarà…
[10] La visita ai luoghi santi è datata 31 ottobre / 7 novembre 2009. L’entusiasmo poetico è stato pressoché contemporaneo e non ha avuto bisogno, come le altre opere dell’autore, di ulteriori rimaneggiamenti.
[11] Da “Amica dell’uomo è la sapienza”


Il viaggio metafora della vita negli “affreschi in parola” di Giuseppina Rossitto
di Sebastiano Burgaretta


Tutta la letteratura è vita in sé stessa, perché espressione e documento di vita, anche quando si presenta modulata nella finzione creativa. E tutta la letteratura è sostanzialmente viaggio: nella memoria, nella storia, nella vita personale e sociale di ogni autore.
Questo viaggio letterario-creativo lungo le linee della storia e del cammino esistenziale dell’uomo è cominciato con la Bibbia. È cominciato quando Adamo, in seguito al peccato originale, è entrato nella storia e nel suo accidentato cammino. Si è stabilizzato e celebrato ritualmente con Abramo, quando questi fu chiamato a lasciare la sua terra di Ur e a cercare quella promessagli da Dio. Abramo, in virtù della sua risposta a Dio e alla propria coscienza, uscì da sé stesso e dalle proprie sicurezze, per sperimentare l’avventura della ricerca dell’altro da sé e della propria capacità di saper rispondere alle responsabilità cui era di volta in volta chiamato. Il viaggio fu per lui strumento essenziale di vita rivolto alla padronanza e al dominio delle proprie passioni e dei propri interessi personali, per badare a quelli di tutto un popolo che a lui era affidato. Il viaggio, dunque, come missione salvifica per sé e per gli altri.
Quel viaggio è continuato con le peregrinazioni del popolo eletto sotto la guida del pellegrino e camminante Mosè, il quale però vide soltanto da lontano, dalla cima del monte Nebo, la terra promessa, senza potervi mettere piede. Non per questo, tuttavia, la sua missione di pellegrino, in cerca di sé e della propria identità insieme col suo popolo, è stata vana. Nulla, infatti, fu perduto del cammino fatto sotto la sua guida, a conferma del fatto che ciò che conta è camminare verso una meta, assumersi la responsabilità della vita, agire, operare, indipendentemente dagli immediati interessi personali e dagli esiti cui si può essere esposti.
Già, dunque, nella storia del popolo eletto si configura il viaggio, l’emigrazione come motivo, essenza e scopo della vita. Il viaggio serve alla ricerca del senso da dare alla vita personale dell’uomo e alla vita di quanti col singolo uomo sono in relazione. Le avventure e le disavventure di un popolo sono l’esatto corrispondente di quelle del singolo uomo. E quelle di natura esteriore sono, a loro volta, l’esatto corrispondente e la proiezione di quelle interiori di ogni uomo; delle avventure e delle disavventure dell’anima.
In tutto questo, oltre alla letteratura biblica, è maestra anche la letteratura creativa, quella poetica cioè. Basti pensare a Omero e all’Odissea che va sotto il suo nome.
Odisseo è l’uomo poliùtropos, polipragmatico, che viaggia avventurosamente, per ritrovare sé stesso e la sua patria, cioè le coordinate essenziali della sua esistenza, quanto cioè, in altri termini, lo possa riconsegnare alla dimensione autentica e verace, perché innocente, di vita, dopo che egli avrà espiato le sue colpe di uomo astuto e talora anche perfido. In questa sua personale avventura Odisseo ci rappresenta tutti, perché nessun uomo è innocente e tutti abbiamo colpe da espiare, per cui tutti abbiamo, conseguentemente, bisogno di cercare la dimensione di vita, la misura di vita più consona e adeguata a ognuno, se vogliamo vivere in pace con noi stessi, prima che con gli altri. Non a caso Odisseo è stato preso a modello da molti autori nel corso dei secoli.
Da qui deriva la sete di conoscenza, quella che, facendoci crescere e rendendoci saggi, ci porterà, al tempo stesso, tanta sofferenza, nelle forme varie della nostalgia, del rimorso, del dolore etc. Sì, perché la conoscenza autentica, quella cioè che non si ferma allo stato di nozione mentale ma penetra nel cuore e nella coscienza dell’uomo, trasformandoli, genera, direi quasi fisiologicamente, sofferenza, dato che l’uomo colto e autenticamente saggio non può non farsi responsabilmente carico dei problemi, delle ansie e dei dolori del mondo, di cui è parte viva e attiva.
L’innocenza rinnovatrice che ognuno di noi, consapevolmente o inconsapevolmente, cerca, passa attraverso il dolore e la sofferenza, purificatori e rinnovatori, del viaggio della vita. Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt cantò Virgilio per bocca di un altro grandissimo viaggiatore della letteratura universale: quell’Enea definito pius per lo spirito di obbediente ascolto alla voce degli dei, che lo chiamano irrevocabilmente e responsabilmente ai suoi doveri di viator chiamato a dare, anch’egli come Abramo, una nuova terra e una nuova patria, insomma l’ubi consistam identitario alla sua gente. Il viaggio di Enea è la ricerca suprema e dolorosa, a tratti intimamente straziante, di sopravvivenza e perciò di identità personale e, nel caso specifico, anche nazionale.
Ma la sopravvivenza e l’identità non sono soltanto materiali, fisiche, geografiche e territoriali. Sono anche, e, forse già prima, di natura spirituale e culturale. Da qui derivano gli sviluppi che sul piano letterario ha assunto il viaggio: da spirituale Itinerarium mentis in Deum, come in San Bonaventura da Bagnoregio, a ricerca di sé e della propria identità di fronte a Dio e agli uomini, come in Dante Alighieri con la Divina commedia; da rincorsa inesausta della bellezza e della libertà, come negli eroi di Ariosto, alla sopravvivenza nel difficile e smagliato tessuto della norma di vita quotidiana all’interno di un quadro e di una visione terribili della storia, come nei Promessi sposi manzoniani; dalla dimensione familiare e didattico-pedagogica di Dagli Appennini alle Ande di de Amicis, al viaggio quale tentativo di recupero dell’innocenza perduta nella Ballata di un vecchio marinaio di Colridge, al viaggio come schema fisso e reiterato alla ricerca della propria identità in tutti i romanzi di Vincenzo Consolo, novello Odisseo in L’olivo e l’olivastro, e, per chiudere la serie, che peraltro sarebbe lunghissima, al viaggio amaro e disincantato, innamorato e ironico al tempo stesso, fatto da Roberto Alajmo col suo recentissimo L’arte di annacarsi, e a questo libro, freschissimo di stampa, di Giuseppina Rossitto dedicato ai Viaggi del ritorno.
Tutto questo, senza dire della letteratura specificamente dedicata ai pellegrinaggi nel corso dei secoli, comprese le opere di grandi autori, come, per esempio, due per tutti, il Petrarca col suo sonetto Movesi il vecchierel e il Leopardi con il Canto di un pastore errante dell’Asia, e senza dire della nascente letteratura che l’ondata immigratoria proveniente dal terzo e dal quarto mondo sta venendo provvidenzialmente a regalarci, per rinsanguare, e rinvigorire anche, la creatività letteraria oltre che il tessuto sociale e produttivo del nostro mondo di occidentali stanchi, svuotati, decaduti e culturalmente esangui.
La storia, del resto, è stata sempre determinata e caratterizzata da movimenti epocali e trasmigrazioni di popoli, e perciò il viaggio è stato sempre la dimensione vitale dell’uomo vivo e attivo, tanto nella realtà del cammino quotidiano quanto nella proiezione letteraria di cui l’uomo è stato nei secoli capace.
Il libro di Giuseppina Rossitto I viaggi del ritorno solo pretestuosamente, credo, soltanto per necessità di un inquadramento e di un’organica contestualizazione strutturalmente valida ed efficace sul piano letterario-creativo, ruota attorno al destino della “Freccia del Sud”. Tutto quanto, infatti, viene fuori da questa serie di viaggi compiuti dalla narratrice riguarda la società del nostro tempo, con i suoi problemi, le sue fragilità, le sue potenzialità, le sue ubbìe, le sue malcelate speranze, le sue precarietà tutte, che poi sono le stesse di noi tutti. I suoi viaggi sono, insomma metafora delle pieghe tutte della nostra esperienza quotidiana di vita.
L’autrice a me appare soltanto come un tramite fra queste connotazioni della società attuale e ciascuno di noi, che, durante la lettura dell’opera, viene fatalmente a trovarsi nella condizione soggettiva della viaggiatrice, che osserva, riflette, annota, proietta e rimanda al lettore ogni movimento del suo essere e della sua esperienza relazionale lungo lo sviluppo variegato e piuttosto singolare della serie di viaggi, che sono di andata e ritorno. Il ritorno precisato nel titolo del libro, infatti, può essere riferito prevalentemente alla dimensione, tutt’affatto personale, soggettiva voglio dire, dello scavo che la scrittrice, e con lei ciascuno lettore, è chiamata a operare nel tessuto della propria memoria, al fine di ritrovarsi, nella maniera più autentica e valida possibile, pienamente consapevole della propria identità attuale e della propria collocazione nel tessuto relazionale che costituisce la trama della propria vicenda esistenziale nella duplice dimensione della micro e della macrostoria.


Il Viaggio sulla “Freccia del Sud”.
Tramonti di immagini di vita reale e di ricordi nel libro di Giuseppina Rossitto
di Grazia Maria Schirinà


Il tema del viaggio è senza dubbio uno dei temi più affascinanti e presenti in tutta la letteratura, dalle origini fino ai nostri giorni. Lo si può intendere in tanti modi, come metafora della vita e sfida dell’ignoto alla scoperta di nuovi mondi e di nuove conoscenze, come esperienza intima alla ricerca di una verità personale, come viaggio di purificazione, come ricerca di mondi originari perduti. Si tratta di un vero topos letterario, usato in tutti i tempi ma spesso con accezioni diverse, anche se poi unificate dalla stessa ansia di ricerca.
Il termine deriva dal provenzale viatge, che a sua volta proviene da un derivato del latino via, viaticum, cioè la provvista necessaria per mettersi in viaggio. Più genericamente, ha assunto l’accezione di muoversi per andare da un luogo a un altro per un periodo di tempo variabile ma comunque limitato; le categorie di riferimento sono senza dubbio quella del tempo e quella dello spazio.
L’immagine della vita come viaggio è profondamente radicata tutte le culture; anche la lingua ne riflette l’importanza e la diffusione. Per questo usiamo perifrasi che ne riprendono l’immagine, come l’aldilà, venire al mondo, andare all’altro mondo, siamo finiti fuori strada, siamo a un bivio, siamo in un vicolo cieco, fare un viaggio a vuoto etc.
Nel ‘900 il viaggio non è inteso però solo come spostamento fisico, bensì come un viaggio illusorio e provocato dall’assunzione di sostanze chimiche, che inducono all’abbandono dei sensi e all’allontanamento della realtà. Tali atteggiamenti sono stati influenzati dalla diffusione di una corrente artistico-filosofica: la Beat Generation, il cui maggiore esponente è Jack Kerouac, importante scrittore del ‘900.
Il verbo viaggiare, inizia a essere usato non prima del Seicento e su di esso si è poi formata la parola viaggiatore, per indicare gli esploratori, i mercanti e gli scienziati… Oggi si viaggia per i motivi più diversi: per lavoro, per ricerca, per esplorazione.. I mezzi odierni ci permettono di muoverci con una certa facilità e velocità; mentre prima ogni viaggio era un’impresa. Nel Medioevo, ad esempio, il viaggio per eccellenza era quello verso la Terra Santa, cioè il pellegrinaggio ai luoghi sacri del Cristianesimo, e, dal 1300, anno del primo giubileo della storia, verso la città eterna. Per la concezione cristiana medievale infatti, il viaggio del pellegrino è un viaggio verso la città di Dio e alcune tappe terrestri sono fondamentali per la crescita spirituale del singolo come delle comunità. Ai pellegrinaggi cristiani si aggiungono le numerose crociate, spedizioni commissionate dal Papa per la liberazione dei luoghi santi. Il fenomeno delle crociate dà nuovo impulso a questo tipo di letteratura. Nella cultura basso-medievale sono attestati anche altri tipi di viaggio. Il mondo della cavalleria e i testi cavallereschi mostrano la figura di un eroe in continuo movimento, alla ricerca di prove, pericoli, imprese eclatanti di coraggio e di forza, spesso compiute nella speranza di ottenere un posto e un ruolo importante a corte. Nell’ambiente laico della città, la letteratura presenta un altro tipo di viaggiatore: il mercante. Un esempio è il Milione di Marco Polo, celebrazione dello spirito di avventura e di conoscenza unito al fascino per il diverso e l’esotico.
Al viaggio che presuppone una partenza, ne corrisponde un altro di ritorno, termine derivato dal latino tornare che significava lavorare al tornio. Poiché il tornio è un attrezzo che funziona girando, il verbo latino indicava il girare, in senso proprio e figurato. Quindi un movimento circolare per cui, in genere, si arriva allo stesso punto di partenza, anche se più ricchi dal punto di vista esperienziale. La teoria del ritorno, la ritroviamo anche in filosofia (per es. Pitagora, Platone e Nietzsche hanno elaborato in vari modi la cosiddetta teoria dell’eterno ritorno) per spiegare la ciclicità degli eventi. In letteratura l’Odissea di Omero, opera prima di tutta la letteratura occidentale, riassume molto bene i significati concreti e simbolici legati al tema del viaggio. Il viaggio di Ulisse è un viaggio di ritorno dalla guerra di Troia alla sua nativa Itaca, patria abbandonata e ritrovata. Il viaggio in mare, con le sue peripezie, che è ricorrente nella letteratura, è anche una perfetta metafora della vita: di solito l’esistenza – la nave – è destinata a perdere la sua guida – la ragione – ed il poeta che rappresenta il dramma umano, si sente in balia di se stesso. Ritroviamo Ulisse viaggiatore, assetato di conoscenza, in più opere letterarie, da Dante a Joyce, ma la tematica del viaggio, sia esso per terra o per mare (all’epoca cui facciamo in questo caso riferimento non si può parlare di aerei, anche se in Verne troviamo la mongolfiera e in Luciano troviamo, come d’altronde nello stesso Platone, ambienti surreali o immaginati come in Salgari), va oltre la figura di Ulisse. Il tema della terra inesplorata, dell'approdo in un'isola sconosciuta, la scoperta di meraviglie e prodigi sono ampiamente utilizzati, infatti, anche nella “Storia vera” di Luciano, associati alle iperboliche e fantastiche, assurde avventure dell'autore stesso, protagonista di un viaggio attraverso il mondo dell'immaginazione, in cui si ritrova il gusto della parodia, del paradossale, della polemica. Un diverso tipo di viaggio è quello che Petronio fa compiere ai personaggi del “Satyricon”: un viaggio attraverso le bassezze umane che porta in sé l'idea della morte, della prova, della selezione, di un mondo ostile, ma anche l’idea del desiderio della scoperta, del pellegrinaggio, dello spirito che ricerca.
Nell’opera che presentiamo il tema del nostos prende forma dalle parole stesse della narratrice/autrice che trasmette l'idea della vita come racconto e del viaggio come narrazione.
La motivazione viene data da incontri casuali e fortuiti, tuttavia ricercati dall’autrice, entro il vagone della fantomatica “Freccia del Sud”[1], chiamata anche “treno della speranza”, quella cioè che è stata il mezzo di trasporto più utilizzato dagli emigranti che dal Sud si spostavano verso il Nord in cerca di lavoro[2].
L’autrice si sofferma a descrivere, quasi con affetto[3], l’evoluzione, nel tempo, di questo treno, la sua storia: lo stesso treno diventa protagonista di tutto il racconto.
Un atto dovuto ad un mezzo che ha fatto la storia di tanta gente del Sud, specie ora che ne è stata decretata la soppressione[4]. Eppure pare che anche questo treno si sia adattato ai tempi, nonostante la vecchiaia[5].
Chi di noi non ha preso, almeno una volta, la Freccia del Sud? Io, che vi ho viaggiato all’inizio della mia carriera, ne ho parlato in un racconto pubblicato sui Quaderni de “Lo specchio di Alice” , mio padre ne ha parlato nei suoi romanzi e in alcuni racconti ancora inediti, e così molti altri.
Anche questo volersi accostare a viaggiatori non di “prima classe” ha lo scopo, quasi giornalistico, di indagare e analizzare nella semplicità dei personaggi esaminati, la crescita sociale e culturale[6] del profondo Sud[7] e non solo.
Le partenze e i conseguenti ritorni hanno sempre la stessa tratta: Siracusa - Bologna, Bologna – Siracusa. L’ autrice, che ha già sperimentato la partenza e il distacco dai fratelli, prima ancora che dalla sua famiglia, vuole rendersi conto di come sia cambiata la società, quella stessa società che ha visto morire ad Avola i braccianti, che scioperavano reclamando un trattamento equo (da cui poi “Lo Statuto dei Lavoratori”), e a Gioia Tauro i viaggiatori del “Treno del Sole”, deragliato per un attacco le cui cause non saranno mai accertate.
Sin dalle prime battute, emerge l’impegno sociale e politico che ne ha caratterizzato la visione del mondo e della vita.
Per motivi prevalentemente di lavoro, la nostra autrice si trasferisce giovanissima da Avola, in provincia di Siracusa, a Bologna (da qui il motivo per cui il suo viaggio è un andare e tornare da una casa ad un’altra casa), ma, forse inconsapevolmente, quand’anche l’adattamento alla sua nuova dimensione sia totale e positivo, la scena che lei propone quando parla dell’isola è da sogno[8].
Dopo il primo capitolo dedicato quasi per intero al treno, dal secondo capitolo in poi, si avvicendano incontri molteplici, come molteplici sono le tipologie di viaggiatori, con il loro vissuto e le loro speranze. Ne viene fuori un quadro molto complesso nel quale, a partire dallo scontro generazionale, emerge tutta la problematica sociale dei nostri giorni.
Le storie si sovrappongono tra passato e presente, mentre l’autrice, con grande maestria, riesce a inserire spaccati di vita[9] e riflessioni personali[10]. Con meticolosità viene appuntata ogni nota atta a caratterizzare i singoli personaggi, anche la posizione che occupano all’interno dello scompartimento. Il tema della famiglia, anche quando presenta situazioni problematiche, è sempre presente[11] così come quello del lavoro e dell’educazione. Nel quarto capitolo abbiamo anche una dissertazione culinaria regionale di tutto rispetto, che va dal dolce al salato, proponendo piatti che, con i loro profumi sembrano riempire lo scompartimento tutto[12]. Tra i motivi letterari spicca in questo racconto il nostos, il viaggio di ritorno a casa[13] che, concretizzandosi in una esperienza di partecipazione consapevole alla vita degli altri, per la progettualità dell’impegno intrapreso, tuttavia è come un salto verso l’ignoto. L’autrice, impegnandosi nella trascrizione degli eventi, quasi trascura le sue personali percezioni che emergono tuttavia prorompenti in alcune osservazioni sulla sua condizione personale di figlia[14], di madre,di professionista.
Il ritorno, narrato e vissuto dalla scrittrice/protagonista, è un ritorno anomalo in quanto i punti di riferimento sono ugualmente importanti, anche se diversi, per cui il vissuto sia nell’andare, sia nel tornare, evoca emozioni forti, differenti, ma di uguale intensità. La circolarità connota il percorso come non fine a se stesso, ma funzionale a un’acquisizione di esperienza e di conoscenza: un progresso rilevabile e misurabile soltanto dal confronto con il punto di partenza, che è indifferentemente Siracusa o Bologna; si fa cioè ritorno al luogo nel quale, anche se per un periodo limitato, l’individuo possa rispecchiare e conoscere la propria mutata identità, nuova e più saggia di prima (anche se non più felice). Il nostos, in quest’ottica, implica dunque anche la nostalgeia, il “desiderio sofferto di tornare”, la “voglia di casa” di ciascuno, per ritrovare finalmente le proprie cose ma soprattutto se stesso. Una parte influente, in questo quadro armonico, la detengono i colori abbinabili ai comportamenti e al modo di essere delle persone[15] che, tramite essi, vengono identificati; ma anche i colori della natura[16] che colpiscono i sensi della scrivente.
Al di là della storia personale, c’è anche l’esodo culturale[17], per cui gli scompartimenti si riempiono di tanti giovani che, per motivo di studio, si recano al Nord: chi a Roma, chi a Milano, chi a Bologna etc… Le esperienze dei giovani sono sempre attenzionate, ma, pur trattandosi di giovani studenti, viene fuori un quadro a volte deludente di questa gioventù che, in base alle sue osservazioni, non sa parlare “di niente” anche se si tratta di “bravi ragazzi, educati, tranquilli”, ma “poveri di argomenti, anche fra di loro, privi di curiosità”.
I comportamenti umani, mi viene da pensare a “I caratteri” di Teofrasto, e le differenziazioni comportamentali, si evidenziano però anche al di fuori degli scompartimenti. L’analisi si fa più incisiva ancora nel sesto capitolo, a proposito dei problemi editoriali di un testo.
L’impatto umano e la disponibilità all’ascolto sono diversi tra Nord e Sud, anche se i risultati sono gli stessi. Ma il problema vero è la comunicazione[18]; non tutti sono disposti ad aprirsi all’altro, a comunicare i propri pensieri, a instaurare un dialogo vero per incrementare un processo conoscitivo scambievole, per dare qualcosa di sé e ricevere altrettanto: il cellulare, il videogioco o il computer distolgono dalla comunicazione interpersonale e rendono più facile l’evasione. Eppure, ma in genere sono gli adulti, qualcuno parla e racconta di sé, del suo vissuto, della sua quotidianità, dei suoi problemi con le poste, con la ferrovia, con le multe, con la politica, gli stipendi, i pensionamenti etc…
Quando si riesce a parlare, le problematiche sociali emergono tutte con prorompente necessità: ad esempio la riforma universitaria, il problema dell’immigrazione e dell’integrazione… La comunicazione, quando si rompe il ghiaccio, è piacevole[19] e contagiosa, per cui tutti, come in una famiglia interloquiscono comunicando i propri pensieri, anche se la nostra autrice/narratrice evita, in certo qual modo, di prendere parte attiva, proprio per registrare le emozioni e gli stati d’animo degli altri passeggeri. Ma “quanti segreti possono rimanere tali, se non si ha il coraggio di parlare”! Solo parlando si scoprono attitudini, impegni, professioni… E così si viene a sapere che nello stesso scompartimento, assieme alla nostra autrice, si trova anche uno scrittore il quale, timidamente, si qualifica. Anche la narratrice, in più occasioni, ha apertamente dichiarato il suo motivo di stare su quel treno e scrivere le sue storie, creando nei passeggeri curiosità più che imbarazzo. Si instaura però anche tra i vari passeggeri un atteggiamento di compartecipazione al progetto in cui il mezzo di trasporto ha una parte rilevante[20]. È la stessa vita che emerge da questi racconti che vogliono sì costituire un affresco della società, ma sono anche, attraverso momenti di pausa dall’osservazione esterna, una sorta di cronaca del vissuto personale. Così l’autrice si sofferma a raccontare anche l’esperienza fatta durante i suoi soggiorni, i suoi incontri[21], i suoi spostamenti[22], le sue temporanee abitudini, per raffrontarle poi al suo lavoro e alla sua quotidianità.
Gli ultimi due capitoli propongono quasi un ritorno al passato, con la presenza di lavoratori[23] che si recano al Nord per andare a lavorare[24]. Abbiamo il ritorno storico di una figura molto simile al “caporale”[25] il quale, con fare risoluto, ma anche con una certa dose di spacconeria[26], si sente responsabile dell’andamento della situazione. La scrittrice non può fare a meno di registrare che, ancora una volta, come sempre, le differenze sociali si vedono dai comportamenti e prova un senso quasi di rabbia per il mancato senso di adattamento di questi lavoratori[27]. Si chiede poi però se non fosse proprio questo quello che cercava: trovare cioè quella categoria di persone che sempre più raramente si incontra, camuffata e omologata com’è all’interno della società. Inoltre un sospetto tentativo di furto di una valigia[28], fa meditare anche sulla diffidenza[29] che è innata in ciascuno, specie se le persone sospettate non appartengono allo stesso status sociale e non si conoscono. Questa disavventura lascia un ulteriore senso di amarezza per quanto accaduto, mentre ci si rende sempre più conto delle difficoltà oggettive cui si va incontro nella vita[30] come in questo treno: manca in alcuni vagoni la luce per cui si è costretti a cambiare scompartimento, ci sono dei rumori strani, lo stridio è sempre più fastidioso… è una lenta agonia che tutti avvertono, e che la nostra scrittrice puntualmente trascrive[31].
Il volume è composto di otto racconti che si snodano, tra arrivi e partenze, in un tragitto delimitato e in un tempo stabilito, quello del viaggio. Non è un viaggio d’avventura, ma tale diventa per la varietà multiforme delle esperienze, imprevedibili e perciò istruttive che, spesso, mettono a più dura prova il soggetto che le vive (ma questo è uno degli elementi costitutivi del racconto d’avventura); inoltre possiamo considerare ingredienti della situazione avventurosa gli orizzonti dell’azione e le traversie della protagonista che sono dilatati verso la conoscenza esperienziale del genere umano e delle sue differenziazioni sociali, in un quadro potenzialmente illimitato e omnidirezionale. L’autrice con perizia compositiva ripartisce le sue avventure di viaggio nei racconti in cui narra, seppur brevemente, le vite geografiche di uomini e paesaggi. Il filo logico della narrazione è in un continuo ritorno, nostos, attraverso un mezzo insolito, quale può essere un treno[32] ormai desueto e oggi non più in uso, mediante la critica ad una realtà contemporanea soffocata da un'educazione astratta, superficiale, che spesso non prepara ad affrontare il mondo nella sua concretezza.
Non troviamo qui, come in altri autori che hanno affrontato il tema del viaggio in treno, elementi surreali, assurdi e fantastici, come nel racconto “Il tunnel” di Friedrich Dürrenmatt, né fantasmi, come ne “Il casellante” di Charles Dickens, né Satana come in “Satana in treno “ di Ardengo Soffici; non ci sono nemmeno situazioni angoscianti come ne “Il colore del male” di Fritz Leibner o in”La città dove nessuno scendeva” di Ray Bradbury, lo stesso autore di Fahrenheit 451.
Il treno in questione non simboleggia l’ineluttabilità del male che segna una esistenza disperata di individui malati o psicologicamente deboli, bensì persone che vivono accettando il loro viaggio nella vita di tutti i giorni, che è scoperta dinamica esistenziale e memoria interpretativa.
Troviamo nell’opera una concezione agonistica[33] dell'esistenza, in cui lo scrivere[34] dà la misura dell’essere e fornisce momenti di riflessione personale altrimenti non ricercati e espressi, da cui deriva, per la nostra Giuseppina Rossitto, in questi racconti, la propensione a leggere[35] e rielaborare la realtà.

[1] Pag. 9 - I compagni occasionali di viaggio sono diventati, a loro insaputa, personaggi pittoreschi dei racconti, perdendo le caratteristiche reali, e ricordandoli per quello che hanno comunicato inconsapevolmente. Credo che in ognuno di loro ci sia una parte di me – forse di quanti hanno viaggiato su questo singolare treno – sicuramente, sono diventati elemento di riflessione inizialmente non previsto.
[2] Pag. 14 - In quali condizioni viaggiassero gli emigranti di seconda classe può solo immaginarsi, e non parliamo solo del dopoguerra, ma anche degli anni ’70 ed oltre. Il treno del sud trasportava masserizie, sotto forma di valigie, e persone, con lo stesso criterio, ammassate. Spesso le valige, nelle stazioni di partenza, venivano passate attraverso i finestrini dai parenti che rimanevano a terra, un po’ per il peso, un po’ per la quantità delle persone affollate nei corridoi che impediva qualsiasi manovra. Non di rado, gli stessi viaggiatori venivano catapultati nei corridoi dai finestrini: giovani emigranti agili e snelli che avrebbero trovato nuova vita e sperato un po’ di fortuna oltralpe. Spesso insorgevano liti, negli anni in cui entravano in vigore le prenotazioni manuali, perché venivano assegnati gli stessi posti a più viaggiatori. Altre volte il posto lo dovevi cedere o occupare in più d’uno: mamme con in braccio creature, vecchi e donne che non avrebbero resistito all’enorme fatica, al caldo asfissiante, o al freddo invernale mai prima conosciuto. Qualcuno è pronto a sostenere che si viaggiava anche dentro lo spazio angusto e puzzolente del gabinetto, perché altro posto non c’era. Era tutto questione di passare “a nuttata”, perché i più fortunati l’indomani sarebbero scesi a Firenze, Bologna o Milano e gli altri avrebbero trovato condizioni ben più confortevoli nei treni internazionali tedeschi, svizzeri o francesi.
[3] Pag. 24 - Mi sono talmente affezionata a questo vecchio e lungo treno, che ne accetto senza tanti problemi anche i difetti, e di essi, il ritardo non è certo il peggiore.
[4] Pagg. 27/28 - In marzo sono andata allo sportello della stazione di Bologna per prenotare il mio ultimo viaggio, volevo vedere l’atmosfera del periodo pasquale, poi chiudere un capitolo o meglio questo libro per sempre. Ho appreso amaramente che la “mia amata Freccia” è stata soppressa definitivamente. Ho provato un senso di malessere, come perdere una persona, tante persone, tante lingue, tanti pensieri di gente che non conosco più, forse non ho mai conosciuto abbastanza, ma che sento vicina nel cuore e nella mente.
[5] Pag. 70 - Che dire, anche la Freccia del Sud si adegua ai tempi: è cambiato l’orario, il modo di prenotare i biglietti, anche on line, i giorni di percorrenza, nei dispari si va verso il Sud della penisola e nei pari verso Nord. Tutto questo mi toglie le certezze acquisite nel tempo.
[6] Pag. 26 - Perché ho scelto la Freccia del Sud? Tante volte me lo sono chiesta e le risposte non le ho trovate, oppure me le sono volute negare. Forse perché, rivivendola, mi sarei confortata, nel vedere i progressi sociali del nostro Paese. La Freccia, infatti, non trasporta più solo indigeni ed “indigenti”, ma professori, studenti, turisti, popolo comunitario ed extracomunitario integrato. Insomma, è diventato un treno di livellamento sociale, al basso, al medio, che importa, dicono che non esiste più la classe operaia. I poveri non stanno più a Sud, ma oltre il Sud! Essi viaggiano non più sul “treno della speranza” – tale era il soprannome della Freccia del Sud – ma nei “barconi della speranza“.
[7] Pag. 22 - Infinite storie di sofferenza, di distacchi famigliari,di ritorni e mancati ritorni potrebbero scriversi con sottofondo lo stridio del ferro sui binari. Un costo troppo elevato a confronto del prezzo del biglietto del treno: un costo tutto meridionale, mai ammortizzato dal poco turismo proveniente dal nord e dai mancati o promessi traffici commerciali ed industriali.
[8] Pag. 23 - Cambia tutto passando di là dello Stretto, come se si aprisse un’altra dimensione, fatta di luce, di mare e di odori: è come se il viaggio fosse già terminato, ci si sente a casa.
Toccata l’Isola, il treno non lascia nessuna stazione indietro, si ferma in tutte, come una processione, con soste di penitenza o di ammirazione del sublime: Messina, Taormina, di cui si va fieri, Giarre con il suo lunghissimo viale alberato. Non può non vedersi l’Etna, innevata o fumante, in posizione di sfida con il mare… …Mancano ancora un centinaio di chilometri, ma ormai sono a casa. Il treno è quasi vuoto, i finestrini, lasciati aperti da chi lo ha abbandonato, fanno volare le tendine. È bello affacciarsi e sentire l’aria che ti colpisce fresca il viso e la schiena.
I momenti d’incanto, che vorresti vivere sfiorata solo dalla voce del vento e dall’odore dei giardini e del mare, vengono spesso interrotti dalle telefonate, ricevute ed effettuate.
[9] Pag. 39 - C’è un vecchio aldilà dei binari: ha addossato la bici al cassonetto della spazzatura e fruga tra mobili ammassati e abbandonati ai margini dei contenitori. Spera di trovare qualcosa che valga la pena di portare a casa.
[10] Pag. 45 - Questo viaggio lo pensavo diverso. Negli anni passati, quando prendevo la Freccia del Sud, di solito, incontravo tipi scuri, vecchi, volti molto popolari e che si esprimono con dialetti stretti. Insomma, la Sicilia che viaggia col sentimento da emigrante: genitori che vanno a trovare i figli a Milano, figli che tornano per le ferie dai genitori. Un treno con posti a sedere, il minimo costo che si può spendere per viaggiare. Invece, oggi c’è il popolo del week end, giovani, studenti, vacanzieri.
[11]Pag. 49 - No, no, io non ce la farei, tre mesi sono rimasto senza la mia famiglia quando sono venuto a lavorare a Reggio Emilia, ma dopo, tutti con me li ho portati, altrimenti impazzivo. La mia famiglia è tutto!
[12] Pagg. 51/55 - Dice il papà buono che come fanno i cannoli in Sicilia, e tutti i dolci in genere, non li fanno da nessuna parte; altro che piadine, tigelle e chiacchiere (che comunque dolci non sono): i cannoli sono i veri dolci, i cannoli di ricotta, poi, sono i veri cannoli, ognuno mezzo chilo, impareggiabili sono!
«È la ricotta la differenza – dice il ricercatore volontario – la ricotta di pecora! Io la frullo con lo zucchero a velo, poi ci metto i canditi, i pinoli o il pistacchio, che alle pendici dell’Etna, si sa, è il migliore in assoluto, verde smeraldo!»
Aggiunge il papà buono: «Mia moglie li fa di tanto in tanto i cannoli, quella tutto sa fare, ha le mani d’oro, “dove si mette suona”! Da sola ha imparato, sa fare arancini, cannoli, pizze, tutto. Una di quelle donne che non ne nascono più, una statua d’oro bisognerebbe farle. Anch’io mi adatto a tutto, certo non in cucina, lì c’è mia moglie, ma nelle cose manuali non ho bisogno di nessuno, mi arrangio, va!»
Il tema culinario interessa anche il pittore che aggiunge: «Pure ad Avola fanno i cannoli di ricotta, ha ragione il signore, ognuno mezzo chilo. Una mia amica vi ha trascorso una settimana di ferie e ha detto che faceva la dieta dei cannoli tutte le sere, per rendere quella vacanza indimenticabile e non solo per i colori del mare.»
Dai cannoli si passa alla cassata, quella la fanno più buona nella zona di Catania, a Palermo non tanto, lì, i “piscitelli” fritti incartocciati sono la specialità, che odore, inebriano un quartiere, si possono mangiare pure per strada, con una bella fetta di bastardo, quei limoni grossi tutto mollicone e con la buccia rustica che pesa più del limone, serve per “togliersi la bocca” alla fine. I babà al rum, pure buoni sono, di origine araba, un tempo erano imbevuti di un loro liquore, in alcune zone della Sicilia vengono guarniti anche con la crema gialla. Certo in ogni zona dell’Italia ci sono le specialità locali: per esempio i biscotti di mandorla a Saronno, le caramelle di gelatina, pure quelle, buone sono.
«Se non mi sbaglio, signora, dalle parti di Avola c’è la mandorla detta “pizzuta”, quella per fare i confetti? Peccato che ormai, in questo periodo, gli alberi hanno perso i fiori, perché è uno spettacolo della natura, tutto quel bianco e rosa.»
Non posso che confermare.
«Ma in Emilia Romagna – chiede Peppe grande – che dolci ci sono, mi dica, sono curioso.»
«Il mascarpone» rispondo, la prima cosa che mi è venuta in mente.
«Ah, quello coi savoiardi imbevuti nel caffè!»
«No, niente savoiardi, solo crema di mascarpone, con una spruzzatina di caffè e cacao, un semifreddo delicato!»
«E poi, di primi, di secondi… voi avete i tortellini con il ragù, buono il ragù!»
«I tortellini con il ragù? No, è un’eresia. I tortellini in brodo o salvia e burro, al massimo con panna e prosciutto, le tagliatelle con il ragù!»
«E di carne, che tipo di carne si mangia?»
Io dico quello che si mangia a casa mia: carpaccio, salumi, prosciutto crudo, carne di maiale…
«E a Firenze, a Firenze cosa si mangia?» continua il ricercatore, non solo di treni.
Risponde il pittore: «La ribollita, loro, poi, fanno le minestre…»
«Ma che cos’è questa ribollita, che l’ho sentita dire tante volte?»
È deluso quando apprende che sono verdure cotte e mangiate fredde anche a distanza di giorni.
Il giro culinario regionale finisce subito e si ritorna ai sapori della terra natale.
Il pittore questa volta parla dei sapori della sua terra, un paesino sperduto vicino Enna, mille anime, che come specialità locale mangiano fave essiccate, bollite e poi condite con salsiccia, bieta selvatica, pomodorino e un filo di olio di oliva crudo.
«Buone sono le fave – dice il volontario dei treni – certo un poco pesanti devono essere, anche la salsiccia, ma cos’è ‘sta bieta?»
«È una verdura che si trova nei campi, specialmente d’inverno quando piove ce n’è una quantità smisurata, saporita, una specialità!»
«Certo i legumi sono buoni, sono la parte più importante della “dieta mediterranea” che ci invidia tutto il mondo, perché è salutare, oltre che profumata, poco grassa, sana e naturale», aggiunge il ricercatore per chiudere il discorso.
[13] Pag. 57 - Penso che mi sto avvicinando a casa. Troverò la solita stanzetta, sempre più piena di ritratti e santi, vi albergherò come fanciulla.
[14] Pag. 57 - Penso che mi sto avvicinando a casa. Troverò la solita stanzetta, sempre più piena di ritratti e santi, vi albergherò come fanciulla. Forse è questo pensiero, che ora si fa chiaro, che rende agitati i miei ritorni: l’idea del tornare indietro, di vivere un disadattamento. Sento di perdere la mia qualità di madre, di professionista e che, per quella settimana, diventi solo figlia, usurpando il ruolo ai miei figli, che diventano pertanto orfani, e li vedo in sogno affogare in acque profonde e melmose. Ho creato un sogno tremendo prima di partire ed ho pianto, pur cosciente che era una costruzione mentale.
Pag. 65 - … Adesso il sentimento più vivo è la fretta di arrivare, tutto ciò che sta in mezzo è come se non mi appartenesse.
[15] Pag. 61 - Pantaloni rossi con tasche sulle cosce, camicia bianca indiana con ricamo sul petto, capelli lunghi fino alla nuca, stempiato, barba e capelli rossi. Porta, come me, un paio di occhiali scuri, che non toglierà per tutto il viaggio.
[16] Pag. 61 - L’occhio e la mente sembrano rilassarsi solo alla vista dei verdi prati, si ha la sensazione che la natura conosca meglio dell’uomo il senso dell’ac-costamento dei colori: le acacie si uniscono alle “maie” già fiorite; le punte dei rovi spogli cercano il grigio delle rotaie; i fichi d’india non hanno frutti, fra le spine sono impigliate buste di plastica e lattine lanciate dai finestrini dei treni. Il mare sembra una tavola azzurra, come se il vento non fosse ad esso interessato.
[17]Pag. 62 - Lo scompartimento si riempie di ragazzi universitari che vanno a Milano. Dalle loro conversazioni apprendo che una delle ragazze frequenta la facoltà di Lettere, l’altra Giurisprudenza, la terza Farmacia, mentre il giovane frequenta Economia.
[18] Pag. 73 - È il mondo di oggi, perché sorprendersi! Ci sono sei persone nello scompartimento che non sentono nessuna esigenza di parlarsi, di conoscersi, ma per ognuno è naturale e semplice parlare al cellulare con chi sta lontano.
[19] Pag. 83 - È diventata quasi una famiglia questo scompartimento. Le differenze di età si sono annullate, c’è armonia, un dialogo spontaneo, più che fra genitori e figli. Li faccio sempre più parlare di loro – anch’io parlo un po’ di me, ma non è prioritario.
[20] Pag. 28 - In marzo sono andata allo sportello della stazione di Bologna per prenotare il mio ultimo viaggio, volevo vedere l’atmosfera del periodo pasquale, poi chiudere un capitolo o meglio questo libro per sempre. Ho appreso amaramente che la “mia amata Freccia” è stata soppressa definitivamente. Ho provato un senso di malessere, come perdere una persona, tante persone, tante lingue, tanti pensieri di gente che non conosco più, forse non ho mai conosciuto abbastanza, ma che sento vicina nel cuore e nella mente.
[21] Pag. 112 - Mi vengono in mente certe spigolature dei giorni passati, al “Porto Matto”, davanti alla pizza alle melanzane − specialità della casa − su certi rituali che il nostro esperto etno–antropologo, Sebastiano Burgaretta, ha raccolto dalla cultura popolare.
[22] Pag. 94 - Ad accompagnarmi alla stazione di Siracusa sono degli amici: una significativa rappresentanza de “Gli Avolesi nel Mondo”, presidente e vicepresidente e consorte. Il generale–vice presidente ha una macchina di rappresentanza, linda da fare impressione, come la mia non è mai stata, neanche quando è uscita dalla concessionaria, essendo una promozione a chilometri zero.
[23] Pag. 100 - Lì è la vera gente della Freccia del Sud, quello che chiunque penserebbe di trovare in questo treno di passata migranza: un po’ di cafoneria; un po’ di spavalderia; molto dialetto; linguaggio scurrile…
[24] Pag. 102 - «Che c’entra litigare – dice uno dei giovani – noi dobbiamo lavorare per guadagnarci il pane e magari divertirci nel frattempo, per questo non c’è niente di male, siamo picciotti.»
[25] Pag. 95 - Il “meglio” della comitiva deve però ancora arrivare, il “principale”. Appena varcato il binario tre, con voce alta e sicura, dice: «Ci siete tutti picciotti, perché altrimenti incomincio già da ora a licenziare.»
[26] Pag. 96 - Per lui è una dimostrazione di audacia davanti ai suoi uomini: un capo sa e deve osare più degli altri.
[27] Pag.102 - … Mi fa rabbia che la loro condizione operaia debba essere accompagnata da questo stile comportamentale, invece di vivere dignitosamente ed educatamente la loro condizione. Cosa li porta ad ignorare il contesto, gli altri, che pure sono visibili, ancorché silenziosi. Li immagino a Milano, dove sicuramente sono diretti, per le strade o al ristorante. Possibile che non si accorgano di essere inopportuni?
[28] Pag. 106 - La valigia, lasciata in corridoio dagli spagnoli, ad un tratto, sembra avere avuto le gambe, la vediamo partire. Uno dei ragazzi della squadra la trascina verso il loro scompartimento. La signora allarmata: «Cosa fai, è la nostra valigia, per favor!» Il ragazzo si scusa, dicendo che l’ha scambiata per una delle loro e gliela riporta indietro. Ma ormai è fatta, nessuno toglierà dalla testa alla coppia che volevano rubargli la valigia.
[29] Pag. 107/108 - È chiaro per lei che la valigia la volevano proprio rubare. Mette molta distanza fra lei e loro, dicendo che non ha capito neanche una parola di quello di cui hanno parlato tutta la notte. Certo, lei studia lingue europee, ben quattro, è abituata ad altro, il dialetto non lo ha mai né sentito né parlato!
[30] Pag. 103 - Le osservo queste case che costeggiano i binari. Mi sorprendo a pensare che l’uomo, nonostante l’evoluzione e la sua intelligenza, viva ancora in scatolette, non molto diverse dalle palafitte o dalle caverne dell’età primordiale. Solo qualche comodità in più, per il resto umido, intonaci scrostati, finestre sempre chiuse, buio dentro le stanze, come se questo popolo non avesse più voglia di sole, di luce.
[31] Pag. 87 - La Freccia del Sud è un donnone malato, acciacchi, niente di grave, ma non può competere con i treni dell’ultima generazione. Tuttavia le sono affezionata, come una casa natia, ricca di difetti, ma che riporta al tempo passato. Questi scompartimenti, queste carrozze parlano di storia del viaggio italiano: un viaggio di affetti familiari, d’amore per i luoghi lasciati.
[32] Pag. 134 - Per quanto mi riguarda non riesco a trovare altra motivazione per me, nell’occupare questo treno, se non l’esigenza di carattere narrativo. Un modo intelligente per sfruttare questo viaggio e farlo diventare un’opportunità. Sicché adesso, al buio, mi ritrovo a scrivere per salvare la mia dignità, convincere me stessa che vale la pena di seguire questo percorso umano, nel disagio del viaggio e della vita.
[33] Pag. 136 - A volte sono muri di roccia a rendere impenetrabile la conoscenza, altre volte sono muri di silenzio che impediscono di oltrepassare la soglia del disagio. Di muri ne ho visti tanti, di silenzi ne ho ascoltati, anche in momenti in cui il chiasso dominava, persino quando il boato dei fuochi e i botti hanno chiuso l’anno. La malinconia è una malattia che non si vince con blandi medicamenti, unguenti, balsami, formule magiche e fragranze, come per il male allo stomaco dopo un’abbuffata; solo il sonno sembra coprire il lamento dell’animo e alleviare il dolore di profonde ferite mai rimarginate.
[34] Pag. 91 - La scrittura è un’operazione solitaria. Mi chiedo se potrei scrivere, come faccio, se accanto avessi una persona, un figlio, un compagno, un’amica; di sicuro no!
Si starebbe in silenzio o si parlerebbe di che cosa… La scrittura è sempre riflessione solistica.
[35] Pag. 137 - Tutte le maschere in scena, nel teatro vivente degli scompartimenti della Freccia del Sud, ognuna ha le sue caratteristiche, genetiche e sociali, ognuna è attore e cittadino.
Se il postino diretto a Verona era la maschera più comunicativa, l’ultimo attore, al quale non posso dare più del “vecchietto”, è stata la figura più folcloristica di quest’ultimo viaggio, per il vissuto e la parola omaggiata. Sono loro i veri viaggiatori che scompaiono con la fine annunciata e decretata della Freccia del Sud?