Dirigenti dell'Associazione Lo Specchio di Alice

“Lo Specchio di Alice”
Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDi
versità"
Sede Sociale: presso Presidente
Dott.ssa Giuseppina Rossitto
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40135 Bologna
Codice Fisc. 91173810374

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Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto
Vice-Presidente: Dr. Wilko Mattia Artale
Segretario: Dott.ssa Mirna Magnani
Consigliere: Prof.Federico Palmonari
Consigliere: Prof. Angelo Fortuna

Lo Specchio di Alice

Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDiversità" - APS

Associazione culturale di promozione sociale fondata nel 1998 a Bologna. Obiettivo dell’associazione è valorizzare le diversità di pensiero in momenti creativi unitari. Gli strumenti attraverso cui opera sono: I cenacoli di scrittura collettiva, narrativa e poetica, laboratori di idee che si concretizzano nella pubblicazione di romanzi collettivi; la Rivista bimestrale Quaderni-Incontri per Riflettere, che favorisce il confronto di scrittori, poeti, pittori, fotografi, musicisti e autori creativi di tutte le arti, che vogliono dare un contributo alla riflessione su temi di interesse individuale e sociale. Numerose sono le conferenze, i convegni e le presentazioni di libri di soci. La qualità di socio si acquista con il tesseramento e la partecipazione attiva alle iniziative di sperimentazione narrativa, poetica e pittorica. Le attività culturali sono gestite in regime no profit. La sede dei cenacoli è a Bologna.

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Per informazioni: Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto

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RIVISTA QUADERNI ORGANO DELL'ASSOCIAZIONE

DIRETTORE EDITORIALE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO

ROMANZI COLLETTIVI

CURATRICE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO


venerdì 29 aprile 2016

Il nuovo tema di riflessione della rivista Quaderni




Le copertine della rivista Quaderni n. 2/2016



Presentazione a Noto (SR)
4 aprile 2016
Romanzo collettivo
La strada dove il vento smarrito si ritrova
11 Autori a cura di Giuseppina Rossitto
Interventi di Dott.ssa Giuseppina Rossitto (autrice e curatrice)
Prof. Angelo Fortuna (co-autore e critico letterario)



Simbologia del nero del grigio e dei tanti toni vivaci che colorano giorni ordinari e particolari della nostra vita e persino un romanzo
di Giuseppina Rossitto
Siamo a Noto, la città barocca patrimonio dell’umanità sita nel Val di Noto, nel sud profondo del nostro Paese. Qui la pietra delle colonne, delle gradinate, delle strade, delle fontane, dei conventi delle Clarisse, delle chiese che hanno sfidato i terremoti e di quelle che sono state ricostruite, si colora di rosa sotto i raggi del sole, e anche quando il sole non c’è e il cielo s’incupisce, la memoria conserva quei colori luminosi, il corpo tutto li ha assimilati e l’occhio li cerca in pellicole e in messaggi subliminali. Il rosa di questa pietra, tendente al giallo oro e all’arancione non è certo un colore omologante, per quanto esso si presenti nella sua uniformità, nel senso di continuità spaziale e temporale. Quel rosa parla di un popolo che si sente ricco e un po’ viziato, come una donna carica di femminilità. Al contempo, i toni cangianti verso il giallo fanno pensare a un popolo idealista, intellettuale, illuminato dalla redenzione. Non ha timore infatti di invitare sovrani, capi di Stato (per ultima la presenza del Presidente della Repubblica Mattarella, l’8 aprile, per il ventennale della ricostruzione della Cattedrale - con telecronaca TV del nostro Angelo Fortuna) e paesi del mondo: un sentimento di espansione lo indirizza al movimento, alla libertà e allo sviluppo. Quando la stessa pietra acquista il colore arancione, verso sera, con la luce del sole che si spegne e viene sostituita da quella dei lampioni, allora la città si anima, esprime gioia, affermazione del suo “Essere esclusivo”, buonumore, accoglienza.
Ecco, quest’ultima parola, accoglienza, è quella che ho portato con me a Bologna come sentimento forte dell’evento che ha visto la presentazione del romanzo collettivo “La strada dove il vento smarrito si ritrova”. Ora guardo questa foto legata a quella circostanza, e mi induce a riflessioni sul tema che trattiamo con questo numero della rivista: “Il grigio e il nero, i colori uniformanti  del nostro tempo”.
Tutto nella sala, persone e cose, mi porta a pensare a un mondo di colori, tenui, forti, sensuali, formali, ma tutti vivi, nulla a che vedere con la monotonia o l’omologazione.
Li ho studiati quei colori, a cominciare da quello che sembra prevalere, il blu, colore del cielo e delle acque del mare, nelle sue varie tonalità.

Pare che il blu faccia sì che il cervello produca ben 11 tranquillanti chimici, quindi è un colore estremamente calmante. Forse anch’io inconsciamente ho voluto trasmettere questa sensazione, vestendo nei toni del blu delle acque marine e del cielo intenso che volge alla sera, ma legando quel colore alla collana viola, regalo dei miei figli, che indosso sempre durante le presentazioni, combinazione felice di blu e rosso, ovvero dei colori del sacro e del profano, nelle diverse tonalità che assume il vetro di murano, più chiare, che esprimono sensualità, e più scure, che esprimono spiritualità; e alla terra, con il roseto dell’eterna giovinezza.
Terra, Fuoco, Aria, Acqua. – come dice Lilith al suo bambino (pag. 184) – L’aria è la sostanza più sottile, invisibile, non può essere afferrata o stretta nel pugno della mano. È la “casa” più grande a cui si possa pensare, molto, molto più grande della nostra, perché è presente in tutto l’universo, l’avvolge come questo scialle noi due. Noi siamo sulla terra e sopra di noi c’è il cielo, ma fra il cielo e la terra c’è l’aria. A volte ci dimentichiamo di quanto essa sia importante, perché siamo molto legati alla terra e guardiamo al cielo come una dimensione lontana, persino impossibile da raggiungere. Ma l’aria, che sia brezza leggera, tempesta, uragano, ponente o levante, libeccio, tramontana… ogni vento, piccolo mio, porta vita, trasporta i semi perché gli alberi possano fiorire e dare frutti, porta pioggia perché le piante e noi stessi possiamo dissetarci. Persino l’acqua non esisterebbe senza l’aria e neppure il fuoco, tanto utile per scaldarci, altrimenti moriremmo di freddo e mangeremmo le pietanze sempre crude, e staremmo sempre al buio, senza luce. Ascolta il soffio dell’aria sulla pelle. Cosa avverti? Dimmi cosa senti, chiudi gli occhi e pensa all’aria che respiri, cosa senti piccolo Kairòs?»
«Sento l’odore del mare ‒ e poi ‒  il rumore delle onde ‒ e poi ‒ ...»
Un blu più energico per Angelo Fortuna, a lui era affidato il compito di motivare le persone, con la sua carica energetica e autorevolezza espressiva. Una scelta ancor più appropriata, se si tiene conto che il blu è il colore numero uno in fatto di introspezione, a dirla con il linguaggio della psicologia, e il nostro romanzo ha molto a che fare con l’introspezione. L’altro colore che si fa subito notare nella sala è il rosso. Poche macchie, quanto basta per dare un tono passionale a quello che ci si attende dalla serata. Il rosso è il primo colore dell’arcobaleno, che troviamo nella girandola del nostro logo, anche i neonati imparano a riconoscerlo per primo. Esso esprime movimento e attività, stimolazione. Simbolo dell’amore, del dinamismo e della vitalità, della passione e della sensualità, della fierezza. Nell’arte paleocristiana si dipingevano di rosso gli arcangeli e i serafini. Lo stesso colore del mantello che copre le spalle dell’angelo nell’affresco sopra le nostre teste. E rosso, nel romanzo, è il drappo che ricopre il libro venuto dall’oriente, che custodisce verità e misteri sull’esistenza.
L’altro colore che si fa notare fra la folla della sala è il marrone, nelle varie tonalità. Solido e affidabile, il marrone è il colore della terra, così avara e così generosa in natura. Il marrone chiaro sembra indicare genuinità, modestia, mentre il marrone scuro, tanto simile al legno o al cuoio, sembra esprimere un carattere resistente, per quanto lasci trasparire la malinconia autunnale, piuttosto che i colori più freschi della primavera che viviamo. Gli uomini sono più inclini a scegliere questo colore, come se avessero una preferenza e un atavico attaccamento alla terra.
Ma il grigio e il nero? Possibile che questo popolo di invitati a conoscere “la strada del vento smarrito” non ne sia portatore?
Ebbene, l’unico elemento nero che ho visto, vagando con lo sguardo in questa bellissima sala dell’ex Convento dei Cappuccini, ora sede dell’Università della terza età (Unitre), è quello della vecchia lavagna di scuola. Ma in quel contesto, il nero produce un sentimento di solidarietà e di formazione permanente. Quel colore esprime l’ autorevolezza delle parole, che fungono da monito, da dettato, da verifica dell’apprendimento, per quanto, di questo oggetto, che ha attraversato tutte le nostre vite, nell’infanzia e nella giovinezza, conserviamo anche un ricordo legato alla sottomissione, qualche volta alla vergogna, alla disperazione, all'umiliazione di fronte alle nostre incapacità intellettive e culturali.
Quanto al grigio, poco visibile nell'abbigliamento, è invece presente, in tutte le sue tonalità, nei volti dei presenti, nei capelli, nelle barbe, ed esprime la serenità della senilità. Quella tonalità neutra, tra il bianco e il nero, è lontana dai caratteri che solitamente accompagnano la descrizione di questo colore, considerato ambiguo, intermedio, apatico, opaco, monotono, sobrio, cupo.
Quanti colori, dunque, a smentire quella sensazione o convinzione, fatta abitudine e pessimistica visione della vita odierna. Li ho visti attorno a me in svariate sfumature e aspetti. Ogni individuo è portatore di colori e l’alchimia che li unisce e mescola crea un’immagine d’insieme nello spazio e nel tempo che ci dice che diverso si può e questa diversità non è da assimilare ad un concetto negativo, al contrario! L’uomo deve utilizzare i colori e attraverso questi esprimere il valore di se stesso.
Ma allora mi torno a chiedere: perché ho proposto questo tema e non, ad esempio: La vitalità dei colori, come segno distintivo del nostro tempo?
Il fatto è che, per quanto la mia natura mi porti a preferire il colore, come artista e come persona, in ogni momento e circostanza della mia vita, verifico spesso quanto le nostre giornate, la nostra quotidianità ne siano prive, tanto da provare un certo disagio quando mi ostino a usare il colore, anche senza avarizia.
Mi capitò un giorno, questo tipo di occasioni non sono rare, di andare in un hotel di lusso per una circostanza che vedeva impegnati un centinaio di persone. Sono quelle occasioni in cui tiro giù dal guardaroba e dalla sua custodia il mio visoncino color biondo, che mi fu regalato con immenso piacere ormai una quindicina di anni fa, e tuttavia quasi in disuso, per rimorsi legati a un sentimento animalista. Notai, lasciando il soprabito al guardaroba, che nessuno avrebbe potuto scambiarlo con il suo, perché era l’unico di colore chiaro - in tono peraltro  con il colore dei miei capelli e della mia pelle - per quanto fosse un avvenimento mattutino. Tutti i cappotti, i giacconi, che fossero d’uomo o donna, erano neri o tendenti al grigio. La sorpresa e l’imbarazzo fu ancora più grande quando, andando a ritirarlo a fine mattina, la guardarobiera mi disse che non aveva bisogno del numero sapeva già qual’era il mio cappotto e vi si diresse a colpo sicuro.
Andai a un pranzo un altro giorno, sempre per una circostanza di rilievo. Era annunciato scuro, riferito ai signori uomini. E per le donne una implicita eleganza.
E allora come vestirsi, per essere elegante e professionale insieme?Gli esperti di look dicono che bastano dai tre ai sette secondi perché chi ci osserva si faccia un concetto di noi. I colori che indossiamo contribuiscono a creare un'idea in chi ci sta osservando, siano essi colleghi, manager, amici e soprattutto curiosi e criticoni. Un colore sbagliato e sei bollato.
Ma qual è il colore che più si adatta a te? E questo è indipendente dal luogo in cui si va e alle persone che si incontrano? Se, per esempio, il luogo è un ristorante con sedie vestite di bianco e si indossa un vestito bianco, il rischio è confondersi con la sedia, se invece le sedie sono nere e indossi un vestito nero il rischio è che non si noteranno i confini di dove finisce la sedia e incominci tu.
E poi, tutti i colori sono adatti a te, o un colore si addice più di un altro?Dunque se è un problema di personalità o tipologia, a quale possibile tipologia appartieni?
La prima considerazione che fai è: quasi quasi non vado. Troppo lavoro, troppi pensieri da elaborare per capire quali sono i colori che  corrispondono alla tua personalità, in rapporto all’ambiente, al luogo e alle persone che presumibilmente saranno presenti.
Ma un tentativo lo fai. Un supporto lo cerchi, ti informi. E allora scopri che, secondo Mountford ed altri psicologi, esistono quattro categorie che definiscono quattro tipologie di esseri umani e che restano invariate per tutta la vita. Il che non significa che gli individui appartenenti a una categoria siano tutti uguali, quanto che   presentano delle caratteristiche comportamentali comuni. Può chiamarsi questa uniformità?
Vediamole allora per sommi capi queste quattro tipologie: 
 Il Proattivo:
È una persona concentrata verso il proprio obiettivo; sa cosa vuole e come ottenerlo; va subito al punto;  grande lavoratore che non si sottrae alle difficoltà;
L’ Espressivo:
Ha una natura incline alle vendite e alla narrazione; un carattere appassionato; buon comunicatore e motivatore; tende all’esagerazione e tralascia i dettagli; poco operativo;
L’Affabile:
Ha una personalità cordiale che non ama il conflitto; si adatta a tutte le situazioni: può sembrare privo di carattere; è amante dell'arte, della musica e della poesia; molto sensibile; silenzioso e parla a bassa voce;
L’Analitico:
Ha una personalità orientata al dettaglio; prima di prendere una decisione ha bisogno di conoscere ogni aspetto; tende ad essere persona critica; tendenza al pessimismo.

Se riusciamo con chiarezza a comprendere a quale di queste personalità apparteniamo, possiamo scegliere il colore a noi più adeguato, con l’unica variante della sfumatura.
Sembrerebbe, sempre dall’analisi di questi studiosi, che per la tipologia proattiva sarebbe controproducente vestirsi di nero, la scelta giusta infatti ricadrebbe su tonalità di verde o blu. Mountford raccomanda a tutti di indossare il nero con parsimonia. Il nero difatti è il colore che più spesso viene scelto, soprattutto dalle donne, per l'ufficio. Secondo Mountford questo colore è adatto solo per alcuni rari casi di tipologia analitica, in quanto per le altre tipologie tende ad esprimere freddezza e lontananza e crea una barriera emozionale tra se e gli altri.
Vediamo dunque quali sono i quattro gruppi di colori consigliati:
Gruppo 1
Questo gruppo di colori è accomunato dalla delicatezza e dalla chiarezza. Si tratta di colori caldi in cui il nero è decisamente escluso. Vi fanno parte il color porpora, rosso corallo, rosa pesca, verde smeraldo, azzurro, blu cobalto e il lilla. Le caratteristiche associate sono l’affettuosità e l’ottimismo.  
Gruppo 2
In questo gruppo a prevalere sono
colori delicati, spesso è diffusa la tonalità di grigio. Sono colori morbidi e tenui. C’è il rossiccio, rosa, pompelmo, verde salvia, tortora, lavanda. Le caratteristiche sono: eleganza sommessa, equilibrio, grazia, calma, superiorità.
Gruppo 3
I colori appartenenti a questo gruppo sono caldi ma molto più intensi e accesi. Sono colori in cui il nero compare in composizione, mai da solo. Ricordiamo: rosso pomodoro, ruggine, verde oliva, melanzana, blu pavone. Le caratteristiche psicologiche associate a questi colori sono: l'affidabilità, l’amicizia, il senso pratico. 
Gruppo 4
I colori di questo gruppo sono chiari e forti, come il nero, bianco, rosso acceso, magenta, giallo limone, verde giada, blu ghiaccio, indaco, violetto. Essi comunicano eccellenza, ambizione, modernità e predisposizione alle tecnologiche.
Nei paesi occidentali le tipologie di persone più ricorrenti sono la tre e la uno. Per queste tipologie il mondo esterno, e di conseguenza le opinioni altrui, sono molto importanti. Si tratta quindi di persone che tendono ad adeguarsi all’ambiente circostante scegliendo i vestiti secondo le convenzioni
Ho le idee più confuse di prima. Bisognerebbe avere molto tempo per analizzarsi, occhio allenato all’estetica, disponibilità di un armadio capiente per contenere variazioni sul tema colore. E se a primo acchito mi sembra di possedere caratteri comuni a più personalità, che miscuglio ne viene fuori?
Se, sentendomi una persona che non si sottrae alle proprie difficoltà, scegliessi il rosso?
Chi si veste di rosso si fa senz’altro notare. Ma è un colore che può essere legato anche ad aggressività o incontinenza sessuale. Sono disposta a comunicare questo tipo di “informazioni sensibili” attraverso l’abbigliamento?
Forse l’arancione
Chi lo indossa esprime gioia e affermazione del suo Io, buonumore e altruismo..
E se optassimo per il giallo?
Fa sentire bene con se stesso; è infatti il colore associato al senso di identità, all'Io, all'estroversione. Denota forte personalità. Utilizzarlo stimola la razionalità e il cervello sinistro. (Mah! Vedo così raramente persone vestite di giallo…)
E il verde?
Il colore dei miei occhi, energetico. Sicuramente denota equilibrio, riflessione (faccio Incontri per Riflettere da 10 anni!).
Vediamo anche il blu chiaro.
No, sembra che sia associato a un temperamento flemmatico; allora il blu scuro (indaco). Ma pare sia adatto a persone tese e nervose, chiuse e riservate. No, non lo sento a pelle!
Il viola, non dovrei sbagliarmi...
Le tonalità più chiare esprimono sensualità, le più scure spiritualità. Comprende il blu e il rosso (sacro e profano). Quasi, quasi! Ma quante persone vestono viola? E se poi sembro strana?
Il nero, vuoi vedere che...
Snellisce la figura. Può essere portato di sera, meglio evitarlo di giorno, però. Ma è un colore che non ho mai amato, l’ho associato sempre al lutto. E in combinazione con altri colori che succede? Con il rosso diventa combinazione di forza e potere, con il giallo esalta il potere intellettuale e con il rosa il potere sociale. Mah! Non so...
Il bianco? Ma va bene per l’estate, non certo in tutte le stagioni…
Il marrone fa un po’ terra, buono per una gita fuori porta.
É rimasto solo il grigio?
Le persone che indossano il grigio pongono una barriera tra sé e il mondo. Quasi, quasi... Meno impegni, meno esposizione, rapporti formali.
Mah! Vediamo cosa trovo nel guardaroba, che non sia molto sfruttato, che non sia troppo appariscente, che non metta in evidenza troppo le forme, a cui posso abbinare collant e scarpe e borsa. Ma sì, vado sul sicuro, bianco e nero insieme, fa combinazione di grigio, elegante, sobrio. Chissà gli altri, ma il confronto non mi interessa, e non ci sarà, ne sono sicura. E invece, ahimè, l’80% delle persone hanno scelto tonalità di nero, grigio, bianco.
E se invece avessi indossato il viola?
 

Simbologia e suspence. La ricerca del numero 7
                                                 di Angelo Fortuna






 Premessa
Il romanzo collettivo “La strada dove il vento smarrito si ritrova”, per la significativa aggiunta dell’aggettivo “collettivo”, merita qualche riflessione introduttiva per evitare smarrimenti da parte del lettore e per situare l’opera nel contesto della letteratura sperimentale.
Premettiamo anzitutto che “La strada dove il vento smarrito si ritrova” è il quinto romanzo collettivo che vede la luce per la Collana Wiola, fondata e curata da G. Rossitto.
Possiamo capire che le prime istintuali reazioni nei confronti di questo tipo di sperimentazione possono essere di sorpresa e perplessità. Ma dopo questa incipiente esitazione, la curiosità intellettuale deve avere il sopravvento. Ogni scrittore, ogni poeta, per rimanere in ambito letterario, nella sua insaziabile ricerca artistica non può non andare oltre, non può che sperimentare, anche uscendo dal tranquillizzante seminato, per aprirsi al nuovo, per essere pronto alla sorpresa, alla prospettiva di nuovi orizzonti, e inedite scoperte. 
Credo di non essere lontano dal vero nell’affermare che anche altri avventurieri della letteratura che hanno partecipato alle iniziative del romanzo collettivo abbiano provato identiche sensazioni, superate per il desiderio di intraprendere sentieri poco frequentati.
Un illustre precedente
Non possiamo cavarcela con queste brevi precisazioni per dare ragione delle perplessità che un progetto del genere ha insito in sé.
La prima è collegata al fatto che, da sempre, quando si parla di romanzo, il pensiero corre all’autore, non certo agli autori al plurale. Per la verità, all’inizio della storia del romanzo moderno, abbiamo tuttavia un esempio di romanzo scritto a due mani, ma in tempi diversi, da due autori dissimili per formazione e convinzioni, che mai entrarono in contatto tra loro e che avevano obiettivi differenti. Mi riferisco al famosissimo “Roman de la Rose” di Guillaume de Lorris e Jean de Meung, scritto in versi in un periodo storico in cui la prosa sembrava dover essere confinata alla storia, alla filosofia, al saggio critico.
Il Roman de la Rose è pertanto un poema allegorico di 21.780 octosyllabes, scritto in due parti distinte e di ispirazione diversissima dai due citati autori e a distanza di 40 anni l’uno dall’altro.
L'opera fu infatti iniziata nel 1237 da Guillaume de Lorris, che scrisse 4.058 versi. In seguito, essa fu ripresa, sviluppata e completata, con altri 18.000 versi, da Jean de Meung  tra il 1275 e il 1280. Il successo fu immenso, tanto che il testo fu uno dei più copiati per tutto il Medioevo e ben oltre: di esso, ci rimangono circa 300 manoscritti, distribuiti nelle più antiche biblioteche del mondo.
Il Roman de la Rose assume la forma di un sogno allegorico. Il poeta – ci riferiamo ovviamente a Guillaume de Lorris - si sveglia in un mattino di maggio - la primavera è la stagione topica dell'amore - e si addentra in un giardino meraviglioso - un locus amoenus - dove, attraverso lo specchio  di Narciso, vede riflessa la rosa, della quale si innamora. Tutto il poema narra allora delle imprese dell'amant per conquistare la rosa, allegoria della donna amata, favorito o ostacolato da varie personificazioni dei suoi sentimenti contrastanti (Orgoglio, Vergogna, Pudore, contro Bell’Accoglienza, ecc). Alla fine, con l'aiuto di Venere, egli riesce a penetrare nel castello dell’amata e a consumare l'atto d'amore.
Ciò che colpisce è che i due autori sono diversissimi nel modo di vedere il mondo, di concepire l'amore, ma anche nello scrivere e nel raccontare. Guillaume de Lorris è un autore cortese, mentre Jean de Meung riflette la cultura enciclopedica del ‘200: il suo poema presenta numerose digressioni, racconti secondari, discussioni filosofiche sulle più disparate questioni, ma soprattutto sull'amore, presentando un punto di vista radicalmente contrastante con quello di Guillaume. Non più una concezione cortese dell’amore, ma molto vicina ad aspetti materialistici.
Il romanzo moderno, mentre riconosce in Guillaume de Lorris e in Jean de Meung due precursori, non segue per nulla l’esempio del Roman de la Rose, che riflette due momenti storici e due sensibilità, quelle dei due autori, addirittura opposte.

 Rimane unico nel suo genere a testimonianza di un trapasso epocale tra la mentalità cortese medievale e l’emergere dell’umanesimo rinascimentale. Da allora, fatta eccezione per qualche rara esperienza, peraltro senza alcun seguito, il romanzo, che ha decisamente privilegiato la prosa, è sempre stato il frutto letterario di un solo autore. Come tale, ne riflette l’umanità, la cultura, la sensibilità personale, lo stile e l’approccio agli eventi narrati. Proprio per questo si dice ancor oggi: “Sto leggendo Manzoni, sto meditando su Balzac, studio il Verga, il De Roberto, mi sono innamorato di Proust, ecc., invece di citare i loro romanzi, i loro capolavori”. La figura retorica della metonimia, che, come è noto, consiste nella sostituzione del titolo dell’opera con il nome dell’autore, funziona ancora e rende perfettamente l’idea del romanzo collegato a un solo autore.
Il caso del fratelli Goncourt
Degno di essere citato è comunque il caso più unico che raro di gemellaggio culturale dei fratelli Goncourt, Edmond (1822-1896) e Jules (1830-1870), che operarono nel solco del naturalismo francese. Potendo vivere di rendita, essi si occuparono di letteratura e, in una singolare comunione di obiettivi culturali e umani, scrissero in perfetta simbiosi parecchi romanzi: Suor Filomena (1861), Renée Mauperin (1864), Germinie Lacerteux (1865), ecc. e perfino il celebre Journal (Diario), che descrive minuziosamente la società francese del loro tempo. Essendo un sodalizio unico nella letteratura, i fratelli Edmond e Jules de Goncourt restano prestigiosi autori ma fanno storia a sé.
Che la stesura di un romanzo faccia pensare a un solo autore è un dato di fatto valido anche dopo che buona parte degli strutturalisti, dei formalisti russi e vari critici moderni si sono spinti a decretare la morte dell’autore e la più o meno totale autonomia del romanzo, una volta pubblicato, rispetto a chi l’ha scritto.
La seconda perplessità, di cui vorrei dar conto, è insita in re ipsa, cioè nella forma stessa del romanzo collettivo che, in quanto tale, intende servirsi dell’apporto creativo di molti autori di formazione e sensibilità differenti, ma consapevoli di perseguire un disegno comune, differenziandosi nell’apporto personale al romanzo, ma nello stesso tempo amalgamandosi con tutti gli altri fino a sacrificare buona parte della propria individualità. Ma come amalgamare – ecco un problema non secondario scrittori di culture, sensibilità e capacità diverse provenienti da varie regioni del nostro Paese? Non c’è il rischio che, al posto della necessaria fusione letteraria di tante forme legittimamente differenti di contenuti e stili, si crei una babelica incomunicabilità? Diciamo subito che questa particolare perplessità è scongiurata dall’accettazione e consapevolezza dell’intervento coordinatore dell’autrice-curatrice, nel nostro caso di Giuseppina Rossitto, ma anche dagli incontri concreti e/o virtuali via computer anche tramite Skipe dei protagonisti dell’avventura.
La parabola
del Nouveau Roman
La terza perplessità è costituita dal dato di fatto, riguardante ciascuno degli autori, della scomparsa della propria personalità di soggetto scrivente, destinato, appunto soggettivamente, a perdersi nella comunità scrivente e nei contenuti del romanzo che, alla fine, registra il solo nome e cognome di ciascuno di loro, ma senza neppure evidenziare quantitativamente e qualitativamente il personale apporto. E siccome una punta di naturale narcisismo è presente in ogni persona, in ogni scrittore, si può immaginare il tipo di esitazione, cui un autore va incontro.
Un’altra forma di scetticismo, almeno in origine, derivava dalla constatazione della fine ingloriosa di tante sperimentazioni letterarie del recente passato, in primo luogo del Nouveau Roman che, dopo gli eclatanti successi degli anni 50, 60 e in parte 70, è definitivamente tramontato. Che cosa desideravano fare Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Nathalie Sarraute, Claude Simon, così per citare i più noti esponenti del Nouveau Roman? Essi proclamavano l’espulsione del personaggio e focalizzavano le caratteristiche della realtà, superando e addirittura rifiutando la soggettività umana. A loro avviso, il romanzo doveva descrivere minuziosamente e ossessivamente il reale, assumendo il ruolo di una macchina fotografica senza neppure il fotografo. Come ha ben chiarito lo storico della letteratura Giulio Ferroni, il loro obiettivo era di ridurre la presenza dell’autore alla mera funzione dell’occhio che passivamente registra quello che vede senza alcun intervento soggettivo.
Il Nouveau Roman si poneva così come antiromanzo, antiletteratura. Paradossalmente, la sua progressiva scomparsa dalla scena letteraria, oggi totale e senza domani, è avvenuta proprio per opera dei succitati autori che, essendo nella maggior parte dei casi scrittori di sicuro spessore, sconfessarono con gli scritti quello che teoricamente avevano proclamato, proprio nel senso che, in realtà, pur dichiarando di voler descrivere la mera realtà oggettiva, nei fatti la loro soggettività emergeva chiaramente al di sopra delle loro stesse intenzioni.
Come nasce “La strada dove il vento smarrito si ritrova”
Messe da parte le suddette titubanze proprio per il desiderio di confrontarmi con la proposta di Giuseppina Rossitto, la mia partecipazione alla redazione dei successivi quattro romanzi collettivi, prima timorosa, è divenuta poi sempre più convinta.
Ma eccoci così pervenuti alla stesura del quinto romanzo collettivo, “La strada dove il vento smarrito si ritrova”, alla cui redazione tra gli autori locali hanno contribuito Giuseppina Rossitto, ideatrice e coordinatrice del progetto, la quale comunque è oggi più bolognese che avolese, e poi Franca Puglisi, Luisa Caruso, ormai udinese, e il sottoscritto.
Come è facilmente intuibile, la stesura di un romanzo collettivo, a più mani, non può anzitutto procedere che da un’idea base, da un plot, da una trama principale, per poi svilupparsi in un susseguirsi di personaggi, eventi, storie collaterali, invenzioni. Il tutto esige indefettibilmente una vigile presenza coordinatrice, una regia, che sappia amalgamare i diversi apporti per fonderli nel flusso della trama generale. Ebbene, questa regia è stata assicurata, come per i precedenti romanzi collettivi, da Giuseppina Rossitto, cui spetta il merito di avere immaginato e proposto questa particolare forma d’arte letteraria.
Nel corso dei cenacoli del Movimento Letterario UniDiversità, anno 2014–15, ogni autore, una volta penetrato nello spirito del progetto, ha creato uno o più personaggi che, con il loro vissuto, hanno da un lato arricchito, con le loro vicende personali, la profonda umanità che percorre tutte le pagine del romanzo. Dall’altro lato, hanno influenzato il percorso umano degli altri personaggi con i quali c’è stata una singolare integrazione. Si è così facilitato il raggiungimento di una sostanziale unità che ha dato all’opera il gusto, il sapore, il calore di uno scorcio di umanità in cammino alla ricerca di ciò che costituisce il mistero della vita e del suo svolgersi in quest’angolo di universo che noi chiamiamo Terra.
Come afferma Giuseppina Rossitto, alla fine della comune fatica gli stessi autori faticano a ritrovarsi in questo o quel personaggio. Infatti, le esigenze della trama narrativa, tenuta salda dalla curatrice, hanno ampliato i confini dei singoli apporti, diluiti e armonizzati nel flusso narrativo, che ha risposto all’esigenza di una propria autonomia, spesso al di là delle intenzioni degli autori.
A questo punto, viene spontaneo chiedersi se, rispetto ai quattro romanzi collettivi precedenti, non ci sia qualche elemento, qualche invenzione, qualche nota che possa essere sottolineata come importante novità, in discontinuità col passato. La risposta è un chiaro sì. Basti pensare al contributo apportato dai pittori che hanno eseguito le 49 illustrazioni interne al romanzo e le 21 copertine. Tuttavia, a mio avviso personale, il plusvalore che conferisce a “La strada dove il vento smarrito si ritrova” un’originalità che sfocia nel fascinoso e nel mistero dell’esistenza è la simbologia che attraversa tutte le pagine dell’opera. Siamo ben al di là del realismo classico dei quattro precedenti romanzi collettivi, del romanticismo perenne che leggiamo in molte pagine di essi, delle fughe nell’ignoto che si mantenevano comunque sempre in ambiti di concretezza esistenziale.

Singolare simbologia
e atmosfera di suspense
C’è nel romanzo collettivo che esaminiamo una forte carica simbolica, la cui presenza risponde a un’operazione culturale di primo ordine, tenuto anche conto che ci troviamo nell’era della globalizzazione, del villaggio globale. Sto parlando dello sforzo di collegamento tra la spiritualità orientale (India e dintorni) e la spiritualità occidentale, cristiana in primo luogo. C’è un continuo ricorrere, che all’inizio si potrebbe giudicare ossessivo, del numero sette e dei suoi multipli – 14, 21, 28, 35 ecc. negli eventi dei vari intriganti personaggi del romanzo.
Qualcuno si chiederà che cosa significhi tutto ciò. Non mi limiterò ad un troppo semplice “leggi il libro e  tutto si chiarirà”. Desidero soltanto fornire una chiave di lettura, facendo qualche considerazione su ciò che significa il numero sette nella fede cristiana, nella religione ebraica, nella religione musulmana e in molte filosofie e religioni indiane e orientali, per significare come questo numero sia il segno più idoneo per penetrare nel profondo della spiritualità occidentale ed orientale, in vista di una nuova era di comprensione tra i popoli della terra nell’epoca, come dicevo prima, della globalizzazione. Il numero sette unisce e crea un pathos particolare. Mi pare questo anzitutto il senso del simbolo utilizzato nel libro, che non è qualcosa di astratto perché si concretizza nel vissuto di molti personaggi e nella energia spirituale del romanzo.
Consentitemi pertanto di precisare quanto segue:
Sette erano le fanciulle e i fanciulli che venivano offerti dalla città di Atene a Minosse. (Grecità).
Sette sono le virtù: 3 teologali (fede, speranza, carità) e 4 cardinali (giustizia, temperanza, prudenza, fortezza) (Fede cristiana).
Sette sono i peccati capitali: gola, accidia, superbia, avarizia, invidia, ira e lussuria. (Fede cristiana con ampia condivisione di quasi tutte le altre religioni della terra).
Sette sono i bracci del candelabro ebraico Menorah. (Religione ebraica).
Sette sono gli attributi fondamentali di Allah: vita, conoscenza, potenza, volontà, udito, vista e parola. (Religione islamica).
Sette sono gli Dei della felicità del buddismo e dello shintoismo: il dio della pesca, della fortuna, delle arti, della popolarità, della guerra, della longevità; della giovialità. (Bud-dismo, Shintoismo con altre religioni orientali).
"Sette" è il numero buddhista della completezza. (Buddismo)
Sette sono i doni dello Spirito Santo nel Cristianesimo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timor di Dio.
Sette sono i principali Arcangeli del Cristianesimo  (nel Cattolicesimo 4, tra cui Uriel che non è mai menzionato): Michele, Raffaele, Gabriele, Uriel, Raguel, Zedkiel, Jophiel. (Religione cristiana).
Sette sono i libri dell'Eptateuco nella Bibbia: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosuè, Giudici. (Ebraismo e Fede cristiana).
Sette sono le divinità mitologiche identificate dalla Cabala ebraica (Ebraismo).
Sette sono state le piaghe d'Egitto secondo una nuova interpretazione traducendo "piaga" in "colpi" dall'ebraico, alcuni versetti riportano solo sette "colpi" magari ricordando quelle più significative, ma comunque sono dieci "piaghe" (colpi, punizioni) nella Bibbia. (Ebraismo e Fede cristiana).
Sette sono i Sacramenti del cristianesimo cattolico romano: Battesimo, Cresima, Eucaristia, Penitenza, Unzione degli infermi, Ordine sacro, Matrimonio. (Fede cristiana cattolica).
Sette sono i Sigilli la cui rottura annuncerà la fine del mondo, seguita dal suono di 7 trombe suonate da 7 Angeli, quindi dai 7 Portenti e infine dal versamento delle 7 Coppe dell'ira di Dio (Giovanni, Apocalisse). (Fede cristiana).
Sette erano i veli della danza di Salomè. (Fede cristiana).
Sette sono le opere di misericordia. (Fede cristiana).
Sette sono i dolori di Maria. (Fede cristiana)
Sette sono i Rishi (saggi o profeti nella tradizione indiana) dell'Induismo. (Religione induista).
Perdonare settanta volte sette. (Fede cristiana).
Tutto ciò solo per dire quanto l’uso simbolico del numero sette, diffuso dalla prima all’ultima pagina del libro, sia la cifra misterica per interpretare la trama del romanzo, la cui protagonista, geograficamente parlando, è una piazza, una piazza appunto dove il vento la fa da padrone, un piazza in cui i personaggi si incontrano, si muovono, interagiscono, ciascuno con il proprio mondo interiore, con la sue sofferenze segrete, con i suoi ideali, con le sue piccole grandi gioie, con i suoi obiettivi umani, con le sue aspirazioni.
Un’altra caratteristica del romanzo riguarda l’allure, l’aspetto, lo sviluppo tipico da detective story (romanzo giallo) che lascia spesso il lettore in una condizione di suspense, la quale lo spinge a partecipare alla trama e a immaginare lui stesso l’epilogo, la conclusione, l’esito. Già l’inizio presenta una situazione labirintica, intrigante, in cui si trova una donna, che è poi la protagonista principale, di nome Lilith, la quale, bagaglio in mano e biglietto dell’autobus, si muove in totale smarrimento in luoghi ora a lei noti, ora completamente sconosciuti. L’apparire inatteso di una  ombra al suo fianco che la segue la mette in agitazione, tanto più che non riesce a trovare la fermata dell’autobus spostata da chissà chi e perché in un posto imprecisato. Lilith, sballottata dal vento – ecco l’altro protagonista del romanzo – trova sbarrate tutte le uscite alla situazione in cui si trova.
C’è tra gli altri soggetti che le si parano dinanzi un tipo arcigno con un coltello a serramanico in una mano e una pesca nell’altra. Quest’uomo singolare, che incute timore, le impartisce una lezione sulle valenze simboliche della pesca: “Nell’antico Egitto era sacra al dio dell’infanzia Arpocrate; i cinesi considerano il pesco l’albero dell’immortalità; per i buddisti è uno dei tre frutti benedetti; i giapponesi considerano il pesco l’albero che protegge dagli spiriti maligni e per noi, cristiani peccatori, la pesca rappresenta la salvezza”. Infatti la Vergine Maria è spesso raffigurata con il Bambino Gesù e con una pesca.
Lilith prosegue il suo cammino finché il figlioletto Kairòs non la chiama e la sveglia. Ecco, la situazione labirintica è l’effetto di un incubo che si rivela premonitore, perché l’ombra che ha intravisto nel sogno è una persona reale. Glielo annuncia Kairòs: “Mamma… Mamma… svegliati! Il nonno dice di scendere, c’è un signore venuto da molto lontano con un libro antico, vuole che tu lo veda!”.
I tre personaggi intorno a cui ruota il romanzo sono appunto Lilith, il bambino Kairòs e il nonno Agni, che è cieco. L’uomo, venuto dalla lontana India, è il misterioso prof. Joseph Heastlist, uomo di grande cultura, filosofo. La famiglia di nonno Agni, Lilith e Kairòs è stata colpita da un gravissimo lutto in seguito a un incidente stradale in cui hanno perso la vita la moglie di Agni, la figlia, il genero e il marito di Lilith e padre di Kairòs, nome significativo che in greco significa “momento opportuno”.
Il padre di nonno Agni, Vincenzo Turriglio, bisnonno di Lilith, partì un giorno del 1921 per l’India, di cui era innamorato, e non ritornò mai più. Il vento di levante, arrivato con il prof. Joseph Heastlist, porta con sé i sette profumi dell’Oriente: si tratta di un vento speciale che, oltre ai profumi, trasporta e rinverdisce i ricordi.
Mi fermo qui per quanto riguarda la trama che si può ben definire il leitmotiv del libro. Attorno a questo leitmotiv agisce una folla di personaggi: Anselmo, il barista, Gioacchino, il maggiordomo della casa patrizia dove vive la famiglia di Lilith, Diana, una donna inglese che fa la fiorista, Ghita che tiene una bancarella di frutta e verdura, Miù che gestisce una casa del pesce, Matilde che vende cani, gatti, uccelli, e poi Benedetta l’archivista, Filippo, priore del convento benedettino, Giovanni suo amico, originario del luogo ma venuto da lontano, Belinda, una donna passionale e intraprendente, Paola, giovane mamma dal temperamento artistico. Le storie di tutti si differenziano e si fondono in una comunità che ricerca l’armonia che viene prima o poi raggiunta e infine sublimata grazie a un coup de théâtre finale, che non vi svelerò per non togliervi il piacere dello scoprimento del finale.
La lettura è piacevole perché varia e ben amalgamata in virtù di uno stile discorsivo, spesso cattivante.
Con “La strada dove il vento smarrito si ritrova”, il romanzo collettivo fa un altro salto di qualità confermando la sua vitalità e proponendosi come una sperimentazione letteraria e artistica di sicuro interesse e rispetto.