Movimento Letterario-Artistico UniDiversità - Ass.ne Lo Specchio di Alice, senza scopo di lucro

Lo Specchio di Alice MOVIMENTO LETTERARIO-ARTISTICO Internazionale "UniDiversità"-APS LE ATTIVITA': Rivista Quaderni-Incontri per Riflettere, Cenacoli di scrittura e di poesia, convegni relativi alla scrittura creativa ed argomentativa nel campo della poesia, della narrativa, del teatro e del pensiero filosofico; studi storici,sociali, estetici delle arti in genere (visive, musica e danza); forme di espressione corporea per la ricerca di motivazioni esistenziali, individuali e/o sociali.

Dirigenti dell'Associazione Lo Specchio di Alice

“Lo Specchio di Alice”
Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDiversità"
Sede Sociale: presso Presidente

Dott.ssa Giuseppina Rossitto

Via Bellinzona 34

40135 Bologna
Codice Fisc. 91173810374

e mail: giuseppina.rossitto@gmail.com

e mail: rossitto.direttorequaderni@gmail.com

Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto
Vice-Presidente: Dr. Wilko Mattia Artale

Segretario: Dott.ssa Mirna Magnani
Consigliere: Prof.Federico Palmonari

Consigliere: Prof. Angelo Fortuna

Lo Specchio di Alice

Movimento Letterario-Artistico Internazionale "UniDiversità" - APS

Associazione culturale di promozione sociale fondata nel 1998 a Bologna. Obiettivo dell’associazione è valorizzare le diversità di pensiero in momenti creativi unitari. Gli strumenti attraverso cui opera sono: I cenacoli di scrittura collettiva, narrativa e poetica, laboratori di idee che si concretizzano nella pubblicazione di romanzi collettivi; la Rivista bimestrale Quaderni-Incontri per Riflettere, che favorisce il confronto di scrittori, poeti, pittori, fotografi, musicisti e autori creativi di tutte le arti, che vogliono dare un contributo alla riflessione su temi di interesse individuale e sociale. Numerose sono le conferenze, i convegni e le presentazioni di libri di soci. La qualità di socio si acquista con il tesseramento e la partecipazione attiva alle iniziative di sperimentazione narrativa, poetica e pittorica. Le attività culturali sono gestite in regime no profit. La sede dei cenacoli è a Bologna.

Blog: http:// movimentoletterariounidiversita.blogspot.com

Per informazioni: Presidente: Dr.ssa Giuseppina Rossitto

- cell. 349 4969393 tel. 051 6447608 (ore serali)

e-mail: giuseppina.rossitto@gmail.com

RIVISTA QUADERNI ORGANO DELL'ASSOCIAZIONE

DIRETTORE EDITORIALE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO

ROMANZI COLLETTIVI

CURATRICE

DR.SSA GIUSEPPINA ROSSITTO

venerdì 26 ottobre 2012

LA RIVISTA QUADERNI IN MOSTRA

17-18-19-20

PRESSO LO SPAZIO CULTURALE EUREKA

IPERCOOP CENTRO LAME Bologna

39 Autori

Poeti, Scrittori, Pittori, Fotografi, Musicisti, Autori Creativi a confronto

sul tema

LIBERO CONFRONTO

OGGI DICO LA MIA COME VOGLIO

CON UNA VOCE, UN GRIDO O UN SUSSURRO

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UN INVITO A SCEGLIERE DI ADERIRE A

LO SPECCHIO DI ALICE

I NOSTRI AUTORI

LE NOSTRE INIZIATIVE
IL NOSTRO MODO DI STARE INSIEME

ATTRAVERSO:

LA POESIA, LA NARRATIVA, LA PITTURA, LA FOTOGRAFIA, LA MUSICA, L'IMPEGNO CIVILE E SOCIALE

I nostri romanzi collettivi:

Giuseppina Rossitto e 30 Autori di Alice,

Strani incontri nella casa rosso bolognese, 2010

Giuseppina Rossitto e 19 Autori di Alice,

L'albero del silenzio e l'arbusto della parola, Ed. Collana Wiola, 2011

Giuseppina Rossitto e 30 Autori di Alice

Fra le alture e i dirupi, noi, 2012

Giuseppina Rossitto e 19 autori del Movimento Letterario UniDiversità, Acque di fiume e acqua di mare, Ed. Collana Wiola 2013

Giuseppina Rossitto e 11 Autori del Movimento Letterario UniDiversità, La strada dove il vento smarrito si ritrova, Ed. Collana Wiola, 2015

Giuseppina Rossitto e 31 Autori del Movimento Letterario-Artistico UniDiversità, Collezione poetico-artistica "Formare l'Uomo Nuovo", 31 volumi, 1550 pagg.

Poesie di impegno civile da Quaderni n. 1/2011

di Giuseppina Rossitto
Bologna Presidente Lo Specchio di Alice

Ancora il maggio operaio
Per le strade, agli incroci, ci sono
loro, io, tanti, già mi arrivava l’eco
dai cento pullman sui viali circolari.
Sciopero, ma non unitario, come mai?

Sotto il portico, tolgo gli auricolari,
voglio captare parole, le più parole,
della gente, anche i rumori, i suoni.
Vederli da vicino gli scioperanti.

Sentire le trombe, i fischietti, i cori,
le parole che non ho udito ancora.
Le scritte le vedo, sigle, a riempire
d’ogni colore enormi striscioni.

Passa al mio fianco una donna,
si chiude le orecchie disturbata
da tanto chiasso, da tanto rumore,
io le apro e mi sento anche guardone.

Vado in crisi, alla marea di gente,
un’organizzazione su ampia scala,
e sembra efficiente; io amo il piccolo,
non standardizzato, ma strutturato.

Amo le parole che viaggiano nel vento,
e questo corteo è muto come un tempo.
Mi solleva un gruppo di animose donne,
quasi ad ascoltare i miei pensieri e sogni.

“O Partigiano...”, canzone d’ogni mente,
palloncini gialli col filo legato fra le mani,
la bandiera Novecento, manifesto di sempre.
Coro di rosee voci, le nuove, le sole voci.

Il palco alle torri, alla Ravegnana,
antichi dazi e mercanzie, luogo ideale.
Non sprechiamo l’occasione! Le parole,
del primo oratore, ma quale, e per chi?

Mi chiamo Francesca e lavoro! La voce
è alle donne nel sindacato in rovina.
Serve integrazione, crescita delle persone,
servizi, diritto alla spesa, posti di lavoro!

Le capannelle lungo la T plaudono
con fischi alla “moda” stagionale,
ai gelsomini, alle primavere, ai colori,
al mare impazzito dei naufragi.

Il lavoratore non deve abbassare la testa,
di fronte al mercato, ma alzare la voce
contro un sistema che non gli appartiene!
Si reclama il diritto ad avere un futuro.

Lavoratori io vi dico che uniti si vince!
Scusate ho perso la riga! Silenzio! Applausi!
Ah, ecco! Il Primo Maggio l’Ikea era pieno,
le piste ciclabili vuote, i labirinti affollati.

Lungo la T e sotto il Gigante Nudo io spio
la città che vedo e parla, replico in versi.
Lascio il corteo alle spalle, bandiere al vento.
Fischia il vento, ma non la bufera, è primavera.

di Wilko Mattia Artale da Quaderni n. 4/ 2009

Tra cinema, arte e letteratura, identità e solitudine dell’individuo

Il cinema surrealista e Salvador Dalì: Un chien andalou
Il cinema surrealista è una delle avanguardie del cinema francese degli anni Venti, del XX secolo, ed ebbe come protagonisti due spagnoli: Luis Buňuel e Salvador Dalì.
André Breton cercò di ridare contenuto alle spinte innovative dell'avanguardia, proponendo di scavare in profondità l'animo umano e il mondo, andando oltre la superficie delle apparenze. Suo è il Manifesto del Surrealismo, del 1924.
Tra i temi fondamentali c'erano la sessualità repressa, l'inconscio e una lettura della realtà oltre gli schemi tradizionali. Nacque una vera e propria nuova estetica, basata sul brutto, sullo sporco, sulle sensazioni violente, forti e dure. Freud, fino ad allora ignorato dalla cultura ufficiale, divenne una miniera per i surrealisti, che esaltarono l'inconscio in tutta la sua potenza.
Un tema caro ai surrealisti fu quello dell'amore spinto fino alla follia. A questo tema si può ricondurre il film simbolo del movimento:
Un chien andalou del 1929.
Il film è un susseguirsi di scene senza apparente connessione, in realtà è ricco di contenuti psicanalitici.
La prima scena, di questi diciassette minuti di filmato, è una delle più terrificanti dell'intera storia del cinema: il regista, dopo aver guardato la luna, affila un rasoio e si avvicina a una donna seduta alla quale tiene ben aperto l'occhio sinistro; nella scena successiva taglia l'occhio in due (in realtà un trucco di montaggio, col taglio dell'occhio di un vitello morto). La scena è emblematica della rivoluzione visiva surrealista, che intende squarciare l'occhio dello spettatore per fargli vedere, anche a costo di grandi sofferenze, tutto quello che non ha mai visto e forse non ha mai voluto vedere. Buñuel compie due operazioni: tagliare e osservare.
Il tema del film è quello di un uomo e una donna attratti reciprocamente da una pulsione erotica intensa e violenta, ma una serie di situazioni e figure si interpongono fra i due. Le visioni sembrano scaturire dall'inconscio più profondo dell'uomo (ricordi di scuola, la scatola con gli oggetti cari), mentre la donna è quella che guarda, attende e cerca l'uomo, ma quando viene toccata lo respinge con orrore.
All'inizio l'uomo va in bicicletta, mentre una donna sta leggendo un libro chiusa in una stanza: l'inquadratura mostra una pagina con La merlettaia di Verneer, un simbolo della femminilità casalinga e tradizionale. La donna si affaccia alla finestra e vede l'uomo che cade proprio davanti alla sua porta. Allora scende e, trovandolo ancora immobile, con una misteriosa scatola a righe al collo, lo soccorre e lo bacia. Tornata in casa apre la scatola a righe e vi trova una cravatta avvolta in carta a righe, che essa mette in un colletto di cartone, ricreando sul letto la forma dell'uomo con i sui abiti distesi. Si siede poi ad aspettare guardando il letto finché non si accorge dell'uomo nella stanza. Lui si sta guardando la mano, al centro della quale si trova un foro dal quale escono formiche (una immagine che Dalì disse di aver sognato). La donna si avvicina, allora sovvengono immagini sessuali (peluria di ascella, paragonata a un riccio di mare).
La scena successiva mostra un personaggio androgino, vestito da uomo ma dai tratti femminili, che, per strada, tocca con un bastone una mano mozza. L'uomo e la donna guardano dalla finestra. L'androgino tiene in mano la stessa scatola a righe dell'uomo, per cui rappresenta forse una sua proiezione di femminilità. L'androgino resta solo con la scatola in mezzo alla strada e una macchina lo investe, sorprendendo l'uomo. A quel punto lui è preso da un raptus sessuale e si dirige verso la donna, immobilizzandola contro un muro e toccandole con insistenza i seni, che immagina nudi, facendo un'espressione di intensa libido animalesca. I seni diventano poi natiche nude e poi ancora seni, finché lei non lo respinge. Lui la insegue finché non si ferma in un angolo minacciandolo. Allora lui inizia ad avvicinarsi malizioso, ma nell'incedere deve raccogliere due corde e trainare un misterioso fardello, che si scopre essere composto da due tavole che sembrano quelle dei Dieci Comandamenti, due pianoforti, a ciascuno dei quali sono legati alcuni preti distesi (simbolo dei freni alla sessualità posti dalla Chiesa e dalla società). La donna fugge. Poco dopo lo rivede nel letto malato, con la scatola a righe al collo. Un altro uomo viene a fare visita. Entra e si avventa contro il malato e poco dopo si scopre che è la stessa persona. Crudelmente l'uomo strappa all'alter ego malato la scatola e tutti gli accessori, scaraventandoli fuori dalla finestra. Poi l'alter-ego mette l'uomo in castigo e lo fa tornare sui banchi di scuola, commiserandolo. Mentre sta per andare via, l'uomo blocca l'alter ego e gli spara. Esso muore all'aperto, aggrappandosi ad una donna.
L'uomo liberato passeggia all'aperto con un amico e viene invitato a vedere l'uomo ucciso.
La donna torna a casa. Si trova davanti l'uomo e lo sgrida, ma lui ha perso la bocca: al suo posto ha i peli d'ascella, che lei non ha più. Lei se ne va offesa, facendo la linguaccia e i due si ritrovano sul mare. Adesso è lei a cercare l'uomo, ma lui sembra distaccato, le mostra solo l'orologio. Lei lo bacia e lui si riscalda, abbracciandola. Iniziano a passeggiare, l'uomo nota sulla riva i resti della scatola a righe, che scansa ridendoci su. S’incamminano abbracciati e felici, ma l'ultima scena (Au printemps) è demoralizzante: i due sono sepolti fino ai gomiti nella sabbia e sono vicini ma immobili, impossibilitati a toccarsi.

Il film ha l'obiettivo di provocare un impatto morale sullo spettatore attraverso l'aggressività delle immagini. È un insieme di assurdità, oniricità, creatività che i surrealisti utilizzano per evidenziare l'inafferrabilità dell'esistenza e la sua meravigliosità. I critici sostengono che Un chien andalou può considerarsi un messaggio antiborghese e anticlericale. L'uomo che trascina il piano, gli asini e i preti è stato interpretato come un'allegoria del progresso dell'uomo che viene ostacolato dal peso delle convenzioni della società che è costretto a sopportare.

La ricerca d’identità in Pirandello: Il fu Mattia Pascal al cinema
È negli anni venti che l'interesse di Pirandello per il cinema sembra farsi più preciso. A questo non è forse estraneo il felice incontro tra l'opera di Pirandello e L’Herbier dal quale nasce quel Feu Mathias Pascal (1925), che rimane a tutt'oggi, in assoluto, la migliore realizzazione cinematografica di un testo pirandelliano.
È proprio in relazione al film di L'Herbier che troviamo una delle più pregnanti dichiarazioni di Pirandello sul cinema: quella intuizione della capacità del nuovo mezzo di darci la "visione del pensiero".

Il fu Mattia Pascal al cinema
Sono tre le riduzioni cinematografiche dell'opera di Pirandello. La prima - muta - risale già al 1924: Il fu Mattia Pascal, per la regia del francese Marcel L'Herbier. Nel 1937 è ancora la volta di un regista francese, Pierre Chenal. La più recente versione è italiana: nel 1985 Mario Moricelli dirige Le due vite di Mattia Pascal, una versione trasferita ai giorni nostri, con Marcello Mastroianni.
Il tema centrale è quello della perdita dell'identità che Mattia prima caccia via e poi ottiene e accetta. L'identità è qualcosa di importante che ogni individuo deve preservare per far sì che il suo ricordo rimanga per sempre. Inoltre un individuo non può privarsi della sua identità, poiché ciò gli proibisce di vivere innanzitutto alcuni aspetti sociali della vita, e per di più, è impossibile scordarsi della "vita passata".
Si può anche considerare quello dell'identità come una problematica utopica: l'uomo che, a partire da se stesso, inizia a ripensarsi ed a ricostruirsi. In Pirandello l'utopia purtroppo crolla, l'unica variante è nel 'fu', che dice il passaggio narrativo da una temporalità ad un'altra, il movimento ad anello annulla l'utopia. Pascal é sempre in cerca dell'identità ma non riesce mai a trovarla.
Mattia Pascal è un inetto, un velleitario, uno sconfitto dalla vita che, proprio per questa sua incapacità di adattarsi ad essa, finisce col guardarsi vivere da una posizione di estraneità e di distacco. Egli, all'inizio della storia, si propone di sfuggire a qualsiasi norma e regola, ma dopo l'innamoramento con Adriana capisce di dovere accettare di nuovo il suo ruolo di semplice comparsa all'interno della società; seppur in maniera marginale, è tuttavia importante farne parte, in qualunque modo.

Disarmare i sogni e le speranze: il monologo teatrale e cinematografico di Alessandro Baricco
In Novecento l’autore narra la singolare storia di Danny Boodmann T. D. Lemon, abbandonato nel piroscafo Virginian, e cresciuto da un marinaio fino all'età di otto anni. Il bambino scompare misteriosamente nei giorni conseguenti la morte del padre e quando ricompare incomincia a suonare il pianoforte. Boodman T.D. Lemon viene descritto come un uomo che vive attraverso i desideri e le passioni altrui, che si realizza e si annulla con la musica, che vive sospeso tra il suo pianoforte ed il mare. Dal pianoforte non troverà mai la forza di svezzarsi, non riuscirà mai a superare la paura di amare e di crearsi delle radici, sopraffatto dalla paura di non riuscire a vedere neanche lontanamente una fine nel mondo al di fuori del piroscafo; perciò dedica la sua esistenza a suonare al fine di sgravare i cuori dei passeggeri dalla paura dell'immensità dell'oceano. Piuttosto che raggiungere un compromesso con la vita, preferisce disarmare i propri sogni, le proprie speranze, e lasciarsi esplodere col transatlantico che per tutta la vita ha conosciuto i suoi timori e custodito i suoi desideri.

Romanzo Collettivo 2010

Giuseppina Rossitto (a cura di)

e 30 Autori di Alice

Gli Strani incontri nella casa rosso bolognese, Format Libri, Bologna, 2010

Autori: Giuseppina Rossitto, Gianni Balduzzi, Anna Bastelli, Renzo Fantoni, Anna Maria Cavicchi, Anna Maria Frascaroli, Paolo Marcheselli, Maria Grazia Toschi, Fosca Andraghetti, Maria Tiziana Dondi, Andrea Masotti, Mirna Magnani, Anna Maria Boriani, Morena Scanabissi, Luisa Ghini, Germana Lazazzera, Bruna Brini, Maria Luigia Di Stefano, Giovanna Leanza, Grazia Censoni, Rossana Ruggeri, Luisa Cenacchi, Roberta Ventura, Emelina Pellizzari, Daniela Bertoni, Patrizia Tomba, Laura Colombari, Maria Grazia Gagliardi, Umberto Romano, Marina Massarenti.

Sintesi:

Nella casa dal tipico colore rosso mattone delle mura e dei tetti di Bologna, 32 personaggi, facendo lo sforzo di salire le scale, vanno alla ricerca di una dimensione collettiva del vivere. Incontrandosi, romanzano vite, sentimenti, emozioni. Un romanzo per la città e nella città, per le strade, gli autobus, nei cambiamenti sociali ed individuali, non tralasciando storie d’amore, di passione, di strappi e di ricuciture.

Critica letteraria a Gli Strani incontri nella casa rosso bolognese

Nessuno è mai riuscito a leggere tutto quello che ha scritto Dumas: neppure lui». Una velenosa battuta di Hugo, da cui Dumas si difese con un paragone che ha la sua validità, dichiarando di avere dei collaboratori, allo stesso modo che Napoleone aveva dei generali. Il “segreto” di Dumas, consistente in una capacità di avvalersi del lavoro organizzato quasi su scala industriale, ci fa capire che i romanzi a più “mani” sono sempre esistiti, fin dall’Ottocento, soprattutto in seguito allo sviluppo della stampa nella prima metà del secolo. Ma è nel ‘900 che la pluralità delle “mani” viene rivelata ai lettori; pensiamo ai Wu Ming.
I “Wu Ming della Primo Levi”, autori del romanzo Gli strani incontri nella casa rosso bolognese, sono ben trenta. Riprendendo il titolo del noto capolavoro pirandelliano, potrei definirli “trenta personaggi in cerca d’autore”, oppure inversamente “trenta autori in cerca di personaggi”, o ancor meglio “trenta autori in cerca di un romanzo”. Questo romanzo l’hanno trovato, ed è proprio ben riuscito, con dei personaggi così vivi, che più vivi non si può!
Per tornare alla celebre commedia di Pirandello, come sappiamo essa porta sul palcoscenico un dramma non fatto, ma nel suo progressivo farsi, cioè il cosiddetto “teatro nel teatro”. Analogamente, Gli strani incontri nella casa rosso bolognese è un metaromanzo, ovvero un romanzo in fieri, che si racconta, narrando la propria genesi.
Questo romanzo collettivo è un gio-
co di maschere che passano da un volto a un altro e ha quindi in comune con Pirandello anche il tema della maschera.
Il motivo principale di Sei personaggi in cerca d’autore è l’incomuni-cabilità, che esplode quando gli attori, pregati dai sei personaggi, cercano di rappresentare la loro vicenda, ma i personaggi si sentono traditi da quel tentativo di oggettivazione, dalle parole usate dagli attori. Invece Gli strani incontri, nati dalla sperimentazione di un laboratorio collettivo di scrittura, sono fondati sulla comunicazione, il dialogo, lo scambio reciproco, la socialità: sono «la cultura al servizio del sociale», come leggo nel testo e nelle intenzioni che la curatrice ha ben trasmesso all’intero gruppo. Si impone quindi l’idea, su cui si fonda tutta l’Università “Primo Levi”, che la cultura sia qualcosa di cooperativo.
In questo libro si riconoscono più voci, e quindi, dal punto di vista critico-letterario, posso usare la categoria di “polifonia”, partendo da una antitesi resa celebre dal critico letterario sovietico Bachtin: monologismo epico e polifonia romanzesca. Un celebre esempio di polifonia è rappresentato dalla «Notte di Valpurga» del Faust di Goethe. Inoltre elementi polifonici non mancano in Moby Dick di Melville, in Bouvard e Pécuchet di Flaubert e soprattutto nell’Ulisse di Joyce.
La polifonia spesso è data da un procedimento di collage: la scrittura è una tecnica di bricolage e a maggior ragione in questo romanzo collettivo, formato dall’“incastro” di “pezzi” di ben tenta autori.
Un rischio della polifonia potrebbe essere la frammentazione che, però, a mio avviso, non sarebbe una connotazione negativa, avendo precedenti illustri. Penso al Canzoniere petrarchesco, che a mio parere può essere letto come un romanzo narrante una storia d’amore, e che porta come sottotitolo Rerum vulgarium fragmenta.
Inoltre il frammento può essere conciliato con l’esigenza d’unità. Infatti, ne Gli strani incontri... i frammenti dei differenti autori concorrono nel creare un testo estremamente unito, anche dal punto di vista stilistico. Tale pregevole risultato è stato conseguito soprattutto grazie all’abilità della regia letteraria di Giuseppina Rossitto, che ha ottenuto, come leggo nella sua Introduzione, «un corpo unico ed armonico, nelle immagini, nelle espressioni, nel suono, nella struttura lessicale e grammaticale, nel simbolismo. […] Il linguaggio narrativo che ne è uscito è unico». Ogni personaggio, però, pensa e parla con un linguaggio proprio, conservando pertanto il linguaggio specifico impressogli dal suo autore; tutto ciò non è un difetto ma un pregio, perché impronta i differenti caratteri dei personaggi stessi. A ciascun personaggio corrisponde inoltre una focalizzazione; il romanzo è dunque a focalizzazione mobile, mentre il narratore è eterodiegetico.
Nell’Introduzione Rossitto osserva che alcuni autori sono proiettati alla narrazione delle cose “vere” o autobiografiche, e manifestano «persino pregiudizi di fronte a una rappresentazione più suggestiva, immaginifica, di rottura di schemi, intuitiva, enigmatica, ermetica, espressa da altra componente narrativa».
È stata la regia letteraria a far conciliare e convivere le due opposte visioni, ponendosi il problema del rapporto tra realtà e invenzione. Infatti la storia narrata nel romanzo da un lato viene dall’esperienza, dall’altro è inventata, come mostrano le prime pagine.
L’incipit è rappresentato da una fiaba, che ora vorrei analizzare anche dal punto di vista mito-simbolico. La protagonista è una fanciulla, inizialmente senza nome volutamente, che ci ricorda Alice nel paese delle meraviglie (non a caso gli autori de Gli strani incontri sono soci dell’Ass.ne culturale «Lo Specchio di Alice»), ma compie il percorso contrario a quello della bambina di Carroll, passando dal mondo fantastico a quello reale.
All’inizio c’è una «casa massiccia», che richiama quella del titolo del romanzo. Sul piano mitico la casa, come la città o il tempio, è posta al centro del mondo ed è l’immagine stessa dell’universo. Secondo il filosofo e critico letterario francese Bachelard, la casa è il simbolo del mondo interiore. Così, i piani, la cantina e il granaio rappresenterebbero i diversi stati dell’anima: la cantina corrisponde all’inconscio, mentre il granaio all’elevazione spirituale. La casa è anche un simbolo femminile, nell’accezione di rifugio, madre, protezione, seno materno. Per la psicanalisi le differenti parti di una casa sognata corrispondono ai diversi livelli della psiche: la facciata della casa è la maschera o l’apparenza dell’uomo; il tetto è la testa, lo spirito, il controllo della coscienza; i piani inferiori rappresentano l’inconscio e gli istinti.
La casa dell’incipit possiede nove camini. Simbolo delle vie di comunicazione misteriose con gli esseri del mondo superiore, il camino è la via usata dalle streghe per recarsi al Sabba, e da Babbo Natale per portare i doni. Il camino è anche il canale attraverso cui passa il soffio che anima il focolare, ravviva il fuoco, in breve manda avanti la vita della famiglia; in esso si brucia il ceppo, simbolo della continuità famigliare.
D’altronde, il gruppo dei trenta autori de Gli strani incontri forma come una grande famiglia. Ma, più in esteso, il camino è simbolo del legame sociale, così importante per i trenta autori, a tal punto che i camini della «casa massiccia» dell’incipit sono ben nove.
Leggiamo inoltre nel testo: «Per ogni camino una stanza dove creature dai vividi occhi riconoscevano, nel crepitio delle fiamme, una storia della vecchia quercia. Ai piedi dell’albero secolare, tanto tempo prima, sedevano i druidi profeti». (Le sottolineature sono mie).
Da notare, nel breve passo riportato, è la presenza dell’albero che, simbolo di vita in continua evoluzione, rappresenta il carattere ciclico dell’evoluzione cosmica: morte e rigenerazione. L’albero simboleggia inoltre la crescita di una famiglia, proprio come quella dei nostri trenta scrittori.
L’albero, sorto dalla terra-madre, è un simbolo femminile; non a caso gli autori del nostro romanzo collettivo sono per la maggior parte donne. Infatti l’albero, in quanto simbolo di vita, è assimilato alla madre, alla fonte, all’acqua primordiale.
Gli alberi hanno un carattere bisessuale simbolico, perché in latino hanno una desinenza maschile, benché siano femminili. Non si può considerare l’albero come puramente fallico, a causa della sua forma; esso può anche significare la donna, l’utero, la madre. Gli alberi ripartoriscono; materno è pure il motivo dell’intreccio dei rami, dell’assorbi-mento e dell’espulsione attraverso le radici e il fogliame.
Nella simbolica analitica contemporanea, l’albero rappresenta: l’evoluzione vitale dalla materia allo spirito; ogni crescita fisica, ciclica; gli organi della generazione; ogni forma di maturazione psicologica; il sacrificio e la morte, ma anche la rinascita e l’immortalità.
La fanciulla protagonista della fiaba dell’incipit, solitaria custode della casa, in una «tenera alba di fine estate» venne svegliata dallo stridio delle cicogne. La cicogna, uccello di buon augurio, simbolo di pietà filiale, di longevità e immortalità, è anche animale anti-satanico e dunque avversario del male. La credenza che essa porti i bambini è forse in rapporto con i suoi costumi di uccello migratore, il cui ritorno corrisponde al risveglio della natura.
La giovinetta raggiunse allora un fiume, il cui simbolismo, con lo scorrere delle acque, corrisponde allo scorrere delle forme, alla fertilità, alla morte e al rinnovamento: la corrente delle acque è quella della vita e della morte. Scendendo dalle montagne, insinuandosi nelle valli, perdendosi nei laghi e nei mari, il fiume è il simbolo dell’esistenza umana e del suo scorrere, con la successione di desideri, sentimenti, intenzioni.
La fanciulla guardò il suo volto riflesso nell’acqua, che le valse dunque da specchio. Che cosa riflette lo specchio? La verità, la sincerità, il contenuto del cuore e della coscienza. Esso dà una immagine rovesciata della realtà; la sua superficie deve essere pura, perfettamente levigata, per ottenere il massimo del riflesso. Il tema dell’anima come specchio, che si trova abbozzato da Platone e da Plotino, fu particolarmente sviluppato da Gregorio di Nissa.
La ragazza «si specchiò a lungo compiaciuta, fin quando un solitario raggio di sole trafisse lo specchio d’acqua». Ecco dunque il sole, simbolo della vita, del calore, del sesso maschile, dell’autorità.
Secondo l’interpretazione di Paul Diel, il Sole illuminante e il cielo illuminato rappresentano simbolicamente l’intelletto e il sovracosciente; l’intel-letto corrisponde alla coscienza e lo spirito al sovracosciente.
La giovine «vide apparire allora un volto accanto al suo, distinto, eppure vago come un desiderio. Era un uomo senza età, dallo strano cappello».
Nell’ultimo passo riportato ho sottolineato l’aggettivo strano, che richiama gli strani del titolo del romanzo, per il quale posso parlare di straniamento: i trenta autori, attraverso artifici linguistici, rivelano aspetti inediti di una realtà nota.

Quanto al significato del cappello, solitamente sembra corrispondere a quello della corona, segno del potere, della sovranità, ma non è questo il caso. Penso che qui, in quanto copricapo, rappresenti la testa, il pensiero. Come osserva Jung, cambiare cappello significa cambiare idee, avere un’altra visione del mondo.
La fanciulla capì che l’uomo «era solo una visione, ed infatti svanì fra i cerchi concentrici. Era quello il volto della sua anima persa? L’aveva trovato e perduto al contempo? E ora, dove cercarlo? Avvolta nel manto, con lo zaino in spalla, iniziò l’estenuante ricerca ed avventura. Prese un treno […] Scesa dal treno, la ragazza vagò senza meta. […] ritrovandosi in quella che le sembrò una radura. Era un grande giardino dai profumi di mille piante e fiori».
Il giardino è un simbolo del Paradiso terrestre, del Paradiso celeste di cui è l’immagine. Appare spesso nei sogni come la felice espressione del desiderio, libero da ogni ansia.
E così, dall’inizio alla fine, il romanzo è carico di simbolismi.
Anche nelle ultime pagine compaiono elementi interessanti dal punto di vista mito-simbolico. Vi leggo che Paloma, il personaggio narrante del romanzo, «aveva scostato i teli bianchi delle sue piccole finestre del sottotetto […] Una forte luce illuminava la finestra di fronte munita di cancello con sbarre. Anche le sue finestre avevano cancelletti, ancora più fitti».
In quanto apertura sull’aria e la luce, la finestra è un simbolo di ricettività. Quanto ai cancelletti, le tavole di Apprendista e di Operaio comportano, nella Massoneria, tre finestre munite di griglie, conformi in questo a ciò che il Libro dei Re dice circa le finestre del Tempio di Gerusalemme.
Ma, per tornare alla nostra Paloma, «il mare l’aveva visto da poco, quello nel quale si era immersa tante volte. Di sera e grosso, le aveva fatto quasi paura. Minaccioso com’era, lo immaginava un gigante che se avesse voluto avrebbe inondato e distrutto tutto».
Simbolo della dinamica della vita, tutto nasce dal mare e tutto vi ritorna: luogo delle nascite, delle trasformazioni e delle rinascite. Acqua in continuo movimento, il mare rappresenta simbolicamente uno stato transitorio fra le possibilità ancora da realizzare e le realtà già realizzate, una situazione di ambivalenza che è quella della incertezza, del dubbio, dell’indecisione e può concludersi bene o male. Il mare è legato sia alla vita che alla morte: immagine dell’inconscio, è origine di correnti mortali o vivificanti. Per i mistici il mare significa il mondo e il cuore umano, sede delle passioni.
Il romanzo termina con uno degli incontri del gruppo alla casa rossa.
Vi leggo: «Una luce si proiettò nella parete vuota, dove solitamente stava il lenzuolo dai davanzali fioriti, staccato perché da ultimare: nella luce nascevano parole, le tante parole che si erano detti».
Vorrei soffermarmi sul simbolo della luce, consapevole del fatto che spesso le frontiere tra luce-simbolo e luce-metafora rimangono indecise. La luce è la conoscenza e, nell’Islam, è identica allo Spirito.
Nel passo riportato ho sottolineato, in relazione alla luce, il termine parole, ricordando che, secondo San Giovanni, la luce primordiale s’identifica col Verbo: tale nesso esprime l’irradiamento del Sole spirituale, che è il vero cuore del mondo. San Giovanni precisa che questo irradiamento è percepito da ogni uomo che viene al mondo.
La luce rappresenta la vita, la salvezza, la felicità accordate da Dio; il Messia porta la luce, è lui stesso luce. Le tenebre, invece, sono simbolo del male, della disgrazia, della punizione, della morte.
Gli psicologi e gli analisti osservano che all’ascensione sono legate immagini luminose, accompagnate da un sentimento di euforia, mentre alla discesa sono associate immagini oscure, unite al sentimento di timore.
La luce indica dunque l’espansione di un essere attraverso la sua elevazione, che si armonizza nelle altezze, mentre l’oscurità e il nero rappresentano uno stato depressivo e ansioso.
La luce, simbolo del mondo celeste e dell’eternità, è la forza che dà e toglie la vita: tale luce, tale vita.

Vorrei infine osservare che l’incipit e il finale de Gli strani incontri coincidono: il libro termina circolarmente come inizia. Rileggiamo allora insieme questa conclusione circolare:
«Era un tempo in cui si avvertiva intensa la necessità del cambiamento. Lo sentivi nell’aria, poiché ognuno ne parlava, e lo ascoltavi anche negli intimi pensieri. Un grande fermento agitava gli individui della casa rosso bolognese; ma il “nuovo” era ancora sconosciuto, un abito da cucire, una stanza da riempire. Da dove iniziare? Sicuramente dal recupero e custodia del vecchio per trasferirlo nella dimensione futura…».
Il romanzo termina con dei puntini di sospensione: un finale aperto, come Umberto Eco vuole sia ogni opera moderna. A questo proposito non posso fare a meno di ricordare il saggio Opera aperta dello stesso Eco, che resta ancor oggi un punto di riferimento per una discussione sulle tecniche linguistiche e sul ruolo ideologico delle avanguardie artistiche del ‘900, dalle avanguardie “storiche” alla “neoavanguardia”, autrice anche di “romanzi sperimentali”.
Forse non a caso Rossitto, nella sua Introduzione, definisce Gli strani incontri un “romanzo sperimentale”.
Insomma, arrivata alla fine della lettura del libro, ho sentito nell’aria qualcosa di aperto, che mi ha ricordato la verlainiana «chose envolée qu’on sent qui fuit d’une âme en allée vers d’autres cieux».

di Angelo Fortuna da Quaderni n. 2/2011

Una luce nel deserto esistenziale

Iniziò così, nel deserto esistenziale di Giuseppe Cassone, una corrispondenza fitta e continua che venne ad illuminare le sue uguali giornate. Non esitò a rispondere immediatamente, il 12 ottobre 1906, anche se sotto l’influsso di “atroci dolori”.
“Fiore di gentilezza squisita” egli definì la corrispondente (…). Commosso dalle gentilezze della ragazza, il poeta netino rompe ogni indugio invitandola a togliere dalle lettere “quei sussiegoso “S. Illustre e a trattarlo con più “confidenza”… “perocché io ammirazione non cerco, e so di valer ben poco: bensì ardente mio desiderio sono le amicizie affettuose, giacché l’infermità mi tiene fiori dal mondo e vivo coi lontani: una parola di affettuosa stima mi conforta più di cento righi ammirativi».
Non temendo di risultare indiscreto, ribadisce (a Margit) il suo desiderio (…) di sapere tutto di lei… e torna a chiederle un ritratto (…). “Che vuole: Nella solitudine in cui mi trovo, avere nella mia stanza le immagini dei cari amici è per me un conforto: mi pare, a volte, di non essere più solo, e guardo le dilette effigie, e parlo con loro, come se avessi presente le persone».
Ma quale posto le assegna il poeta solitario? Ebbene, il ritratto di Margit è in ottima compagnia sopra il suo scrittoio, assieme a quelli di Byron, Musset, Heine, Pukin e naturalmente Petòfi. Le foto della ragazza di Budapest, che sono state scattate nella sua stanza, non hanno particolari meriti artistici, ma sono molto utili al Cassone, dotato tra l’altro di spirito di osservazione; guardando l’arredamento della stanza ed individuando un pianoforte, una serie di libri e una copia di Amore e Psiche del Canova, pronuncia la sua sentenza: la sua nuova corrispondente è un’intellettuale, si occupa principalmente di letteratura e di musica.
Mentre le scrive, le sue sofferenze fisiche non si attenuano, ma egli non vuole turbare l’atmosfera di incanto che la presenza della ragazza ha introdotto nella sua stanza. (…).
È il richiamo della vita che gli ha mostrato il suo aspetto accattivante. L’amica le ha scritto nella sua lingua, ma Cassone, pur dichiarando di conoscere le lingue francese, magiara, russa, tedesca, inglese, le spiega che è meglio che, in futuro, scriva in italiano perché i suoi disturbi visivi deformano le immagini e non gli consentono, anche se legge attraverso una lente spessissima di 12 centimetri di diametro, di interpretare bene tutte le parole. Naturalmente, gli è molto più facile intuire le parole scritte in italiano. Tuttavia, anche se non è riuscito a distinguere alcune parole, non gli è sfuggito l’essenziale: «Ho compreso bene che Ella ha un’anima molto sensibile, una mente capace di alti pensieri e, con mio rammarico, anche, che Ella ha passato il dolore e sa che cosa sia». Nel chiederle se conosca il Leopardi, egli dichiara: «... quello è il poeta italiano che io più di tutti ammiro ed amo». Non poteva essere altrimenti per lui: se ne comprende bene il perché, se si considera il denominatore comune del dolore, che non risparmia Margit.
Il 10 novembre, benché afflitto, oltre che dai soliti dolori, dall’oscurità della giornata autunnale, Giuseppe, piuttosto confuso nella sua felicità di essere stato colmato di gentilezze da parte di lei, che nel frattempo le ha inviato un altro ritratto, la ringrazia per le «tante affettuose parole ed indicazioni», che gli consentono d’immaginare quasi ogni istante della vita che ella conduce in Ungheria. Le fa quindi conoscere la sventurata storia dell’inizio della sua malattia, quando, a 22 anni, all’Accademia militare, fu colpito, afferma, da insolazione che poi lo costrinse a lasciare la vita militare e tornare a casa.
Sappiamo, invece, che le cose andarono alquanto diversamente e che l’insolazione, presa ad Avola, è successiva all’abbandono forzato dell’Accademia militare. È evidente che la disastrosa marcia del giugno 1866 da Reggio Calabria a Parma minò pesantemente la sua fibra e fu la causa prima della successiva insolazione del giugno 1867. Ma senza quest’ultima, con ogni probabilità, avrebbe potuto condurre una vita assai meno precaria, una vita normale di professore e studioso nella sua città natale, senza quelle gravi complicazioni che lo resero disabile fino alla conclusione della sua avventura terrena.
Forse per drammatizzare ancor più la sua condizione, Cassone evita di descrivere all’amica, nel periodo iniziale del rapporto epistolare, i fatti tristissimi ma abbastanza prosaici del 1867: la lunga attesa sotto il sole cocente ad Avola della diligenza che sarebbe dovuta arrivare da Catania, il malore e le conseguenze immediate, e pone in relazione la fine dei sogni mai realizzati di combattente con la malattia che lo ridusse in uno stato pietoso.
Una veniale bugia, comprensibile in chi aveva sperato di raggiungere la gloria nel campo militare, o solo il desiderio di pervenire rapidamente alle conclusioni, sintetizzate nella perdita dell’udito e dell’equilibrio? (…)
Non aggiunge né toglie nulla al vero, invece, quando afferma che, da allora, rimase segregato in casa e si dedicò interamente allo studio «per aver almeno uno svago nella tremenda oppressione della malinconia che m’induceva a mettere fine con violenza ai miei giorni». Dichiara alla giovane che componeva poesie fin da bambino e che si innamorò subito del Leopardi, dello Heine e di Alfred de Musset (…).
Giuseppe non nasconde di sentirsi interiormente giovane com’era all’età di 22 anni, prima della disgrazia, indi confessa: «L’anima mia si sente capace di amare, d’amare immensamente, ed ohimè!, sente pure che non assaggerà un sorso d’amore. Da questo proviene che io mi do tutto e volentieri col cuore a chi sa dirmi una parola affettuosa».
[da A. Fortuna, Giuseppe Cassone e Margit Hirsch, un amore cosmico, ASE, 2010]

Libro d'Arte

Libro d’Arte:
Giuseppina Rossitto (a cura di) Autori di Alice, Estetica, arte e parola. Il tratto, il colore, la luce che aprono l’esplorazione artistica, poetica e letteraria, Format, 2009, 35x45, Allegato alla Rivista Quaderni
Autori:Giuseppina Rossitto, Federico Palmonari, Gianni Balduzzi, Artale Wilko Mattia, Luisa Ghini, Maria Luigia Di Stefano, Anna Maria Frascaroli, Benito Marziano, Mirna Magnani, Francesco Ricco, Stefania Calori, Grazia Maria Schirinà, Lodovico Lolli, Rosanna Morselli, Maria Tiziana Dondi, Fosca Andraghetti, Morena Scanabissi, Anna Maria Ognibene, Carla Nutini, Daniela Terragna, Roberto Pagnani, Anna Maria Boriani, Mauro Conti, Emelina Pellizzari, Gabriella Cappelletti, Vladimiro Zocca, Silvano Notari, Luisa Cenacchi, Giovanna Fonti, Edda Rossi, Mattia Baglieri, Anna Bastelli, Valmen Fantuzzi, Giulia Cerè, Robert Marnika, Orazio Galloni, Anna Maria Sanguigni