Presentazione del Romanzo
Giuseppina Rossitto
e gli Autori del
Movimento Letterario UniDiversità
Acque di fiume e acqua di mare
Avola 22 marzo 2014
Il romanzo collettivo
un brevetto personale da salvaguardare
di Giuseppina Rossitto
Autrice e curatrice di
Acque
di fiume e acque di mare
Bologna, Collana Wiola
Movimento Letterario UniDiversità
romanzo collettivo artistico, pp. 256
formato 22x24 con tavole a colori
Quante domande mi sento
fare, quante curiosità desta l’aggettivo che contorna la formula di romanzo che
da anni mi ostino a difendere come un brevetto tutto personale al quale ho
voluto dare una stanza e una casa di appartenenza, la collana Wiola e il
Movimento Letterario UniDiversità.
Da
più parti mi sento dire, a volte affettuosamente, altre con evidenti segni di
insofferenza, forse gelosia (!?) (nessuno ne rifugge, neppure il migliore
amico!) che parlo, parlo... alle presentazioni dei romanzi. Non ho capito, in
verità, se questa osservazione sia dovuta al fatto che chi mi sta vicino ha
paura di perdere spazio nel dire la sua, o se presenziare sia diventato una
cornice senza quadro, o se la colpa è del mondo tecnologico che ci ha abituati
alla velocità, alle cose che prima di essere gustate (con tutti i sensi di cui
disponiamo) sono già scartate e vanno ad alimentare l’enorme sacco di
spazzatura che accostiamo all’angolo della nostra stanza. Io, che sono abituata
a dare risalto ai colori, sapori, odori, confezioni, corposità, non lesino mai
il tempo a nessuno, tutt’altro, godo nel riceverlo e anche nell’offrirlo,
consapevole che ci sono anche i ladri di tempo. Amo ascoltare i contemporanei
perché essi sono i depositari delle verità inesplorate. Ho amato, per esempio,
l’altro giorno, ascoltare le parole del nostro co-autore Antonio Marino, che
sono andata a trovare nel suo atelier. Osservare i quadri dal vero, là
dove nascono e assumono e trattengono la polvere, vederne le reali dimensioni,
ascoltare dalla voce dell’artista, accalorata come di padre di fronte alla sua
creatura, mi ha fatto penetrare l’opera con gusto. Solo lui avrebbe potuto
svelarmi le cose che ora conservo di quelle opere e che mi guideranno nel penetrarle, se veramente le voglio conoscere
e non solo vederle distrattamente. Questo autore lo voglio nei romanzi! La
cosa, sapete, vale anche per un libro. Svelare i segreti, le simbologie, gli
antefatti, i costrutti, aumenta la conoscenza e ci predispone alla curiosità.
Solitamente gli autori affidano ai critici questi segreti perché li possano
tirare fuori come conigli bianchi da un cilindro nero, per magia. E qui entra
in ballo la critica, il suo valore e a chi l’affidiamo. Ci si assume una vera
responsabilità in questo atto di delega, spesso sulla mera fiducia. In fondo,
nel porto che conosco, siamo tutti marinai di imbarcazioni da diporto,
attrezzate per affrontare le acque costiere, non certo gli oceani. In queste
barche non è la strumentazione o la tecnologia a bordo che fa la differenza,
quanto il capitano e, se c’è, un valido aiutante. (È inevitabile che io ricorra
alla metafora, chiedo venia! Ma la lascerò decifrare a voi).
L’amico di gioventù, il
giornalista Giovanni Battaglia, dell’emittente Canale 8, che ringrazio a nome
di tutti, per avermi ospitato in due trasmissioni dell’Edicola del mattino
(alzata all’alba, per essere in TV alle 7:15 e iniziare alle 8:00 - cosa non si
fa per ridurre le distanze e raggiungere più persone possibili!) mi ha chiesto
come prima curiosità impellente: “Come si scrive un romanzo collettivo?” Gli ho
risposto con un’altra domanda: “Mi inviti per una trasmissione che duri
un’intera giornata o più puntate? Poche parole non rendono, per smontare la
costruzione a cui si è abituati.” In verità, in poco tempo non è possibile dare
una risposta esaustiva. Ma poiché quel giorno era ospite, assieme a me, il
direttore della Banda Musicale della Città di Avola, gli ho risposto con una
metafora: “Il romanzo collettivo è come una orchestra. Diversi musicisti e un direttore.
Con la differenza che oltre ad essere direttore (ovvero il curatore, che si
assume il 15% della stesura del romanzo), rivesto anche il ruolo di primo
violino (essendo l’autore del personaggio principale e di quelli a esso
collegati, il che corposamente si traduce nel 50% del romanzo: 50+15= 65%). La
mia mano deve essere attenta a dare il tempo, il colore, il mio orecchio vigile
alle stonature, il rischio potrebbe essere banalizzare il personaggio che creo,
un rischio che non correrei a nessun costo. Quanto ai musicisti, non tutti
suonano alla stessa altezza, non per tutto il concerto o nobili strumenti. Vi
sono tamburi, piatti, triangoli dai pochi tocchi o rulli, ma anche quelli si
devono sentire e devono avere un ruolo nel romanzo. Tutto fa orchestra nel
rispetto dei ruoli.”
L’amica,
non di gioventù ma della maturità, giornalista Gabriella Tiralongo, è arrivata
alla conclusione, più che al punto di domanda, osservando che secondo lei il
romanzo collettivo è sinonimo di democrazia. Tutti scrivono, tutti si
esprimono. Si realizza un grande ideale con la scrittura collettiva: la libertà
di espressione!

Non
voglio smorzare i suoi entusiasmi, e volutamente non ho virgolettato quello che
rammento della sua osservazione ma, poiché la ritengo importante, voglio
provare a rispondere (e dovrò essere, per necessità di spazi, breve!). È vero,
io faccio scrivere tante persone; in primis con la rivista Quaderni -
attraverso la quale ho dato voce a oltre 1500 persone in otto anni - poi con il
romanzo collettivo, attraverso il quale si sono espressi - nei quattro romanzi
editi in quattro anni - 64 autori diversi. Per fare questa operazione, sempre
in prima persona, senza possibilità di delega, ci vuole una grande forza e
anche - e so di non peccare di immodestia - leadership. Essere leader
non vuol dire non subire osservazioni o contestazioni, ci sta tutto, ma ci sta
soprattutto la stima e il rispetto dei ruoli: mia nei confronti dei
collaboratori e loro nei miei. So quanto valgono e pesano (dal punto di vista
della scrittura) ognuno dei miei autori e loro sanno anche il mio valore e
apporto in termini di organizzazione, abilità sintetiche e analitiche, poetiche
e narrative, soprattutto tempo, la risorsa che tutti lesinano e che nessuno ha
a sufficienza, né per sé né per gli altri. Non ho tempo! Voglio la mia privacy!
Queste sono le espressioni che più si sentono in giro. Il valore lo riconosce
chi fa lo sforzo di seguire il percorso con interesse e con voglia di
sperimentare e sperimentarsi, perché vi assicuro che ci sono anche i lavativi,
i perditempo, i perdifiato e gli inconcludenti. Anche a loro ho dato fiducia a
priori e ne sono venuti fuori dei discreti e guidati (da me o da altri
co-autori) personaggi, ma dei pessimi autori, per l’esperimento di cui stiamo
parlando, non mi riferisco di certo al valore di produzione personale, che non
mi permetterei mai di prendere in considerazione in questa sede.
Voglio
comunque precisare che non si tratta di democrazia assembleare, ma di
democrazia rappresentativa, basata su una delega molto ampia al leader. Io
ascolto molto i miei autori, anche quelli che a primo giudizio sembra che mi
facciano perdere del tempo. Guardo anche come si muovono, come si esprimono,
come mandano le mail, come curano il loro profilo su facebook, il lavoro che
fanno, le relazioni che hanno, come osservano le regole che dispongo per
procedere nel lavoro. So chi le applicherà e chi non le prenderà mai in mano, e
so a chi le devo imporre (spesso senza successo!) e su chi devo assolutamente
sorvolare (previo il ferimento dell’amor proprio). Li studio perché somigliano
incredibilmente ai personaggi del romanzo che dovrò assemblare. Questo posso
farlo e devo farlo perché prima di essere l’autore principale e la curatrice
dell’opera sono una persona che sta facendo un esperimento sul sociale. La
scelta di condurre questa sperimentazione letteraria in ambito associativo non
è casuale: è determinante e voluta. Dunque, li studio perché prima di essere i
miei co-autori, sono i personaggi del romanzo. Perciò sono disposta a dare
credito anche a chi esprime mediocrità nella forma espressiva o nei pensieri, o
a regalarla a persone che nell’esprimersi e nell’essere poi interpretati da me,
colmano una loro carenza emotiva rispetto alla vita. Confido poi che in mezzo
ai 30 o 20 collaboratori di turno ve ne siano 3-4 che abbiano le
caratteristiche di autori, perché mi faranno da spalla, sempre fermi i ruoli, altrimenti
non si va avanti.
Per
organizzare e dirigere la troupe ci vuole molto fegato e resistenza, molta continuità, senso di sacrificio. Volete sapere
se soffro quando qualcuno abbandona il campo, quando l’entusiasmo iniziale si
perde alle prime difficoltà, o quando sento malignità, dicerie… quando qualcuno
svela, con interpretazione oltretutto sommaria, segreti del nostro lavoro o si
attribuisce meriti che non ha, confidando nella copertura che questo tipo di
romanzo dà? Soffro, da perderci il sonno! Ma poi mi basta vedere quello che
realizziamo assieme per ricominciare una nuova avventura, magari con autori di
più resistenza, carattere e assiduità.
Devo
dire qualcosa per e dei miei co-autori. Tutti sanno che non nego spazio a loro
di esprimere pensieri - sempre che abbiano le idee chiare su cosa dire e come
esporle pubblicamente; si entra in un terreno delicato quando ci si confronta
con l’esterno, e non si può andare allo sbando - soprattutto a coloro che da
anni conducono l’esperienza e che hanno maggiore consapevolezza del percorso.
Nel fare questo faccio nomi e cognomi, sapendo di non ferire altri che in
maniera meno costante e con minore presenza vi si sono dedicati, anche con
buoni risultati: Gianni Balduzzi, Anna Bastelli, Maria Tiziana Dondi, Maria
Grazia Toschi, Mirna Magnani, Daniela Bertoni, Angelo Fortuna.
Fra
di loro vi sono già autori, altri che stanno crescendo in questo senso, e altri
che vi hanno rinunciato ma non rinunciano a scrivere come modalità di
espressione dei propri pensieri, credendo da sempre nel valore liberatorio
della scrittura.
Ogni
anno abbiamo anche delle rivelazioni e, benché nuove penne, non esito a dare
spazio e rilievo alle loro costruzioni. Spero che abbiano la resistenza dei
primi, perché non è facile, per mille e mille motivi.
So
per esperienza che i miei co-autori sono di passaggio, perché, per quanto
condividano il progetto, non se la sentono di considerarlo il loro progetto, e
di viverlo incondizionatamente nel tempo e con i sacrifici che esso comporta.
Io ho, invece, la consapevolezza, che questo è il mio progetto e non rinuncerò
a cercare alleanze perché possa dare sempre migliori frutti. Mi sono posta di
arrivare a 10 romanzi, 4 sono già fatti ne mancano solo 6. Tempo al tempo!
Scrutare l’opera
da co-autore e critico letterario
di Angelo Fortuna
Premessa
Il romanzo collettivo Acque di fiume e Acqua di mare, proprio per la sua natura, precisamente per l’aggiunta dell’aggettivo “collettivo”, merita qualche riflessione introduttiva per meglio situare l’opera nel contesto della letteratura sperimentale contemporanea.
Premettiamo anzitutto che “Acque di fiume e Acqua di mare” è il quarto romanzo collettivo che vede la luce per la Collana Wiola, fondata, diretta e curata da Giuseppina Rossitto.
Gli altri romanzi collettivi, pubblicati come quello in esame a Bologna, sede de “Lo Specchio di Alice, Movimento Letterario per l’UniDiversità”, già in circolazione praticamente nelle più varie regioni d’Italia, sono: 1) Gli strani incontri nella casa rosso bolognese (2010); 2) L’Albero del silenzio e l’Arbusto della parola (2011); 3) Fra le alture e i dirupi, noi (2012).
Allorché Giuseppina Rossitto mi invitò nel 2011 alla collaborazione, insieme ad altri autori avolesi e netini, Grazia Maria Schirinà, Sebastiano Burgaretta, Benito Marziano, ai quali successivamente si sono aggiunti Umberto Confalonieri e Sebastiana Urso, il primo dei suddetti romanzi, Gli strani incontri nella casa rosso bolognese, era già stato edito e il secondo, L’Albero del silenzio e l’Arbusto della parola, era ai blocchi di partenza.
Le mie prime istintuali reazioni nei confronti di questo tipo di sperimentazione furono di sorpresa, seguita da scetticismo, diffidenza e infine perplessità. Non c’era per caso nell’operazione, mi chiedevo, un eccesso di intellettualismo, una ossessiva ricerca di originalità?
Dichiaro subito che, dopo qualche sbandamento, la curiosità intellettuale ebbe il sopravvento sull’incredulità. Il desiderio di provare qualcosa di nuovo sommerse ogni esitazione.
Credo di non essere lontano dal vero nell’affermare che anche gli amici sodali summenzionati abbiano provato identiche sensazioni e titubanze, subito messe da parte per il desiderio di intraprendere sentieri poco frequentati.
Ma quali erano le ragioni della perplessità? Ebbene, innanzitutto il fatto che quando si parla di romanzo il pensiero vola istantaneamente all’autore. Non per nulla si dice ancor oggi: “Sto leggendo Manzoni, sto meditando su Balzac, studio il Verga, il De Roberto, mi sono innamorato di Proust, ecc., invece di citare i loro capolavori”.
La figura retorica della metonimia, al riguardo, funziona ancora perfettamente, come si vede.
Ciò avviene anche dopo che buona parte degli strutturalisti, dei formalisti russi e vari critici moderni hanno decretato la morte dell’autore e la più o meno totale autonomia del romanzo, una volta pubblicato, rispetto a chi l’ha scritto.
La seconda perplessità era insita in re ipsa, nella forma stessa del romanzo collettivo che, in quanto tale, intende servirsi dell’apporto creativo di 10, 20 o anche più autori. Come amalgamare scrittori di culture, sensibilità e capacità diverse? Non c’era il rischio che, al posto della fusione letteraria di tante forme legittimamente differenti di contenuti e stili, si creasse una babelica incomunicabilità?
La terza perplessità era costituita dal dato di fatto della scomparsa della propria personalità di soggetto scrivente, destinato, appunto soggettivamente, a perdersi nella comunità scrivente e nei contenuti del romanzo che, alla fine, registrava il solo nome e cognome di ciascuno di noi, ma senza neppure evidenziare quantitativamente e qualitativamente il personale apporto. E siccome una punta di naturale narcisismo è presente in ogni persona, in ogni scrittore, si può immaginare il tipo di esitazione, cui si andava incontro.
Un’altra perplessità derivava dalla constatazione della fine ingloriosa di tante sperimentazioni letterarie del recente passato, in primo luogo del Nouveau Roman che, dopo gli eclatanti successi degli anni 50, 60 e in parte 70, è definitivamente tramontato. Che cosa desideravano fare Alain Robbe-Grillet, Marguerite Duras, Michel Butor, Nathalie Sarraute, Claude Simon, così per citare i più noti esponenti del Nouveau Roman? Essi proclamavano l’espulsione del personaggio e focalizzavano le caratteristiche della realtà, superando e addirittura rifiutando la soggettività umana. A loro avviso, il romanzo doveva descrivere minuziosamente e ossessivamente il reale, assumendo il ruolo di una macchina fotografica senza neppure il fotografo. Come ha ben chiarito Giulio Ferroni, il loro obiettivo era di ridurre la presenza dell’autore alla mera funzione dell’occhio che passivamente registra quello che vede senza alcun intervento soggettivo. Il Nouveau Roman si poneva così come antiromanzo, antiletteratura. Paradossalmente, la sua progressiva scomparsa dalla scena letteraria è avvenuta proprio per opera dei succitati autori che, essendo nella maggior parte dei casi scrittori di sicuro spessore, sconfessarono con gli scritti quello che teoricamente avevano proclamato, proprio nel senso che, in realtà, pur dichiarando di voler descrivere la mera realtà oggettiva, in realtà la loro soggettività emergeva chiaramente al di sopra delle loro stesse intenzioni.
Messe da parte le suddette perplessità proprio per il desiderio di confrontarci con la proposta di Giuseppina Rossitto, la nostra partecipazione alla redazione dei successivi tre romanzi collettivi è stata prima timorosa e poi sempre più convinta
Il poema finale:
una sorpresa innovativa
Eccoci così pervenuti alla stesura del quarto romanzo collettivo, Acque di fiume e Acqua di mare, alla cui redazione tra gli autori locali hanno contribuito Giuseppina Rossitto, ideatrice e coordinatrice, Sebastiana Urso e il sottoscritto. Esso presenta, lo diciamo subito, una innovazione significativa rispetto alle opere che lo hanno preceduto. Il romanzo ha un sottotitolo, Migranza di guardiani di fiumi verso il mare, che fa riferimento all’ultima parte dell’opera che altro non è che un poema che conclude il romanzo e che si configura come una sperimentazione nella sperimentazione. Qual è la peculiarità di questo poema? Ebbene, essa sta nel fatto stesso che è opera di vari autori, di cui sono totalmente rispettati l’ispirazione e l’apporto personale.
Se le esigenze del romanzo prevedono una presenza coordinatrice, una regia, che sappia amalgamare i diversi apporti per fonderli nel flusso della trama, diversa è la situazione della parte poetica finale. Solo il verso usato, l’endecasillabo, è identico. Ma gli autori delle singole parti, lasciate alla libera ispirazione dei poeti, ciascuno con la propria singolarità e sensibilità estetica, sono chiaramente identificabili anche se i loro nomi e cognomi sono indicati con le sole iniziali. In conclusione il predetto anonimato non riguarda il poema, ma la parte romanzata e fino a un certo punto.
Preciso soltanto che, mentre il romanzo è stato creato da 15 scrittori, ivi compresa Giuseppina Rossitto, dinamica coordinatrice, alla stesura del poema conclusivo solo 10 di loro hanno dato un contributo. Il che significa che 5 autori non hanno ritenuto di poter partecipare all’impresa poetica finale.
Siamo nella perfetta normalità in quanto non tutti gli scrittori hanno inclinazione anche per la poesia: al riguardo, la storia letteraria docet.
Fiumara, la protagonista
Sulla base di queste premesse, mi sarà concesso di entrare più in profondità in medias res, cioè nell’analisi, almeno strutturale, esteriore, formale, se si vuole, di Acque di fiume e Acqua di mare, allo scopo di mettere in luce alcuni messaggi che l’opera intende veicolare dal punto di vista esistenziale, letterario e umano.
La protagonista del romanzo è una donna, Fiumara, attorno alla quale ruota una serie di personaggi dalla più varia personalità, tali da offrire una visione articolata della ricchezza umana che, quasi senza accorgercene, scorre dinanzi ai nostri occhi. Ciascuno di questi personaggi rivela di essere un mondo, grazie alla complessità dei suoi modi di essere e di porsi sulla scena della vita.
C’è una caratteristica fondamentale presente, naturalmente in varie gradazioni, in ciascuno di loro: la ricerca di senso, non espressa filosoficamente attraverso serrati ragionamenti logici o astratte riflessioni, ma attraverso la dolente, a volte drammatica, esperienza e sofferenza personale, attraverso la casualità, gli incontri e le misteriose coincidenze, l’imprevedibilità degli eventi, come anche attraverso la determinazione a perseguire un disegno di conoscenza del reale e del mistero che circonda il nostro essere nel mondo: il mistero dell’essere, della vita, del cosmo.
L’intervento dei personaggi principali, introdotti appunto dai 15 autori, ivi compresa la figura centrale di Fiumara, è lungi dal produrre un effetto cacofonia, una situazione babelica di incomunicabilità. Grazie all’adesione alla tematica centrale e al sapiente coordinamento di Giuseppina Rossitto, i singoli apporti e inserimenti nell’alveo di grande portata del romanzo sono fonti palpitanti di ricchezza esperienziale e sapienziale, nella misura in cui rinsanguano a getto continuo e impreziosiscono il romanzo.
In virtù del vissuto drammatico degli autori che hanno, ciascuno, una propria problematica, una propria visione dell’essere, una propria storia, un proprio messaggio da proporre, una propria capacità affabulatoria e stilistica, vengono moltiplicate e amplificate le risonanze della caleidoscopica avventura umana che invade pervasivamente l’opera. Tutto ciò senza considerare l’ancor più ampia serie di caratteri e personalità che ogni autore, al seguito del personaggio principale che presenta, introduce nella narrazione del microcosmo socio-culturale da cui proviene, in cui si è formato, in cui la sua esperienza esistenziale si è svolta e ampliata.
Più che per l’aspetto contenutistico, il romanzo collettivo, che si fa ammirare anche per le bellissime e varie illustrazioni che sono, il più delle volte, vere e proprie prove d’autore, può lasciare perplessi per le questioni di ordine stilistico. “Lo stile è l’uomo, è lo scrittore”, assicurava Vauvenargues e con lui i critici letterari più attrezzati anche del nostro tempo. Come coordinare nel nostro caso 15 stili diversi? Posto che, per quanto riguarda la parte poetica finale il problema, come si è detto, è stato risolto alla radice assicurando massima libertà espressiva a ciascun poeta con il minimo comune denominatore dell’uso dell’ endecasillabo, del verso cioè universalmente considerato come il più consono alla struttura profonda della lingua italiana, per la più vasta parte in prosa l’armonizzazione stilistica, nel rispetto della specificità personale, è stata assicurata dalla tematica generale e dall’intervento non invasivo ma di carattere ordinatorio della coordinatrice, di Giuseppina Rossitto, che ha ideato il personaggio centrale di Fiumara.
Come Fiumara si distingue dagli altri personaggi del romanzo per la sua straordinaria sensibilità umana, per il singolare fascino che emana dalla sua persona, per la sua capacità di comprendere e di calarsi nel problema di tutti coloro che vengono a contatto con lei, il che avviene paradossalmente anche al di là della sua stessa volontà, così Giuseppina Rossitto scende con efficacia nelle pagine dei singoli autori, vive l’intensità emotiva che traspare dal loro particolare modo di utilizzare la lingua e, quando necessario, interviene con grazia per evitare stonature stilistiche e, se possibile, trasformare la naturale diversità dei vari autori nel trattare il mezzo espressivo in positivo contributo per ottenere effetti di amplificazione espressiva.
Va detto per chiarezza a questo punto che chi pregiudizialmente non accetta, almeno una tantum, l’idea di far confluire la propria sorgente creativa nel mare aperto della comune creatività, anche a rischio di perdere qualcosa della propria singolarità, non può partecipare all’impresa del romanzo collettivo, che, tra i propri meriti, ha quello di raffreddare l’eventuale eccesso di narcisismo dei singoli.
Ciò detto, una rapida trattazione degli aspetti contenutistici credo che possa costituire un incentivo alla lettura.
Per una lettura consapevole
del romanzo collettivo
Partiamo proprio da Fiumara, donna matura, che è arrivata a un punto decisivo della propria esistenza. La sua singolarità, che ha diretto rapporto con il nome che le è stato imposto, sta nel fatto che è nata in riva a un fiume. Siccome, come suol dirsi “in nomine omen”, il nome è un presagio, un destino, ella eredita da questa sua esperienza primordiale il suo grande amore per i corsi d’acqua, che corrono a perdersi – meglio a realizzarsi compiutamente – nella grande madre comune di tutti i fiumi che è il mare, e in cui avvengono per conseguenza le esperienze decisive della sua vita.
È importante per Fiumara farsi raccontare dalla madre, poco prima che ella passi all’aldilà, le circostanze della sua nascita. È come prendere atto della sua identità strutturale umana per giudicare le scelte o le non scelte del passato e orientare quelle future. A fatica, la genitrice, a cui si è riaccostata dopo un lungo periodo di permanenza lontana dal paese natio, essendo ormai alla fine del suo percorso terreno, le racconta di quel giorno che testardamente ha sempre voluto allontanare dalla sua memoria.
Trovandosi al fiume, incinta alla fine della gravidanza, sperimentò la rottura delle acque, per cui le amiche si strinsero attorno a lei, isolando la zona con alcune lenzuola. Quando l’indecenza fu risolta, le lenzuola vennero spostate, perché tutti potessero vederle.
Dopo, fu tutto un grido: “È nata una bambina alla Fiumara... È nata alla Fiumara... È nata Fiumara!”. Il nome e il destino furono dunque imposti dalle circostanze della nascita stessa.
Posta di fronte alla madre morente, Fiumara sente imperioso il bisogno di raggiungere il fiume legato al suo sbocciare alla vita e, arrivata vicino all’estuario là dove l’acqua dolce si disperde in quella salata del mare, si ferma a guardare l’incrocio visibile delle acque. Quindi, risale il corso tra arbusti, canne, rami secchi e contempla la ghiaia, le cascatelle, i massi, finché le appare uno spazio aperto e paludoso: probabilmente il luogo esatto in cui era venuta al mondo. Seduta su un masso sporgente, fra mille ciottoli bianchi e levigati e altri appuntiti e grigi, medita, mentre osserva lo scorrere dell’acqua, sulle esperienze della sua esistenza trascorsa.
Al ritorno, trova la madre già morta e riflette amaramente sul fatto che, anche al momento del trapasso, è rimasta lontana da lei.
Ma perché mai – si chiede – ha lasciato il suolo natio per tanto tempo? Nasce allora l’esigenza di trovare l’altra da sé, quella che ella chiama “l’antimateria, la materia oscura”? Durante il periodo di elaborazione del lutto, ritorna spesso al fiume, di cui analizza l’incessante fluire verso il mare. Si chiede se non sia proprio questo flusso dinamico, che porta il corso d’acqua all’incontro con il mare e a confondersi con le sue acque, il suo obiettivo, la sua finale realizzazione: “È dunque questo il segreto della vita: la dinamicità, l’incontro?”.
Se continuasse nella meditazione, Fiumara, che ben incarna una sorta di energia vitalistica, ma senza mai ridursi a mero simbolo della stessa, potrebbe forse approdare a un approccio universalistico, metafisico. Ma ella non fa mai questo passo nel corso del romanzo anche se la sua ricerca di senso non ha soste. Il parlare di fiumi e mare è una costante delle sue giornate, specialmente dopo il suo ritorno nella terra natia, di cui – non lo confessa, ma è così - sentiva una profonda nostalgia.
Una folla di personaggi in dialogo con Fiumara
Di tutto ciò discute con i suoi vecchi amici Rio, Saldino e Nido, tre giovani innamorati di lei, tre persone tra cui, al momento giusto, cioè nella prima giovinezza, non ha saputo scegliere. Anche per questo è rimasta lontana per un periodo troppo lungo.
Rio, Nido e Saldino sono profondi conoscitori di acque sia dolci che salate, sono degli specialisti. Rio, di cui sappiamo che è sposato con un figlio ma da tempo divorziato, è stato così soprannominato per la sua passione e impegno di naturalista. Forse, se avesse seguito il suo invito a risalire il corso della fiumara, avrebbe potuto infine rispondere ai suoi perché.
Quanto a Saldino - così denominato per la sua determinazione a rimanere sempre coi piedi saldi per terra - è stato a lungo funzionario di un ente di sfruttamento delle acque. Al momento del ritorno al paese natio di Fiumara, è direttore amministrativo di uno splendido resort, abbastanza prossimo alla fiumara, che gestisce assieme a Rio e Nido, gli altri due suoi spasimanti, da cui si era allontanata dopo la sua mancata scelta. Si apre pertanto per la protagonista nel resort e nelle sue vicinanze una splendida possibilità di incontro di persone che soggiornano nella struttura turistica dei suoi amici e che chissà quante storie hanno da raccontarle, anche se per lo più vivono una vita da solitari.
Il terzo amico di cui era stata “la sua non ragazza”, Nido, era così soprannominato per la sua ossessione di spingersi oltre ogni limite, esplorando oscure caverne lungo i crinali delle montagne rocciose e portarne fuori nidi per la sua collezione. La non manifesta ma anche inequivoca preferenza proprio per Nido, elicotterista della forestale e dell’oasi marina, diventa sempre più chiara nel corso delle vicende del romanzo.
Fiumara, forse colta dal desiderio di ritorno all’età fanciulla per un primo consuntivo esistenziale, ha riacquistato dunque la possibilità di frequentare di nuovo i suoi tre ex-spasimanti giovanili, da cui era fuggita. In anticipo, però, esclude ancora una volta l’ipotesi di potersi concedere in maniera esclusiva ad uno di loro. Avendo sprecato le occasioni a tempo debito e trovandosi in età matura, non considera – questo il suo ragionamento teorico - la possibilità di recuperare il tempo perduto.
Non sarà così, come avranno la possibilità di scoprire coloro che leggeranno il libro, ma forse non è nella possibile conclusione amorosa, che comunque è da mettere in conto, la parte più interessante del romanzo. Sì, perché gli interventi plurimi dei coautori mettono in scena una straordinaria serie di approcci amicali con Fiumara da parte di una pluralità di attori che portano il peso ma anche la ricchezza del loro vissuto. È tutto un mondo di formidabili personaggi che interagiscono con Fiumara, principessa dei fiumi, trovando in lei grande capacità di ascolto.
Ma passiamo alle citazioni utili alla loro almeno esteriore conoscenza.
Min, vecchio pittore e scultore nel quale arte e vita si intrecciano indissolubilmente; proprio Min ci riserva una sorpresa finale. Giò, antico e saggio marinaio posto, si direbbe, a guardia della sua magica isola, quale memoria viva del tempo trascorso; Alinka, un’antropologa, ospite del resort, vittima del male della sterilità, che stabilisce un’amicizia profonda con Fiumara; Federico, anche lui ospite del resort e viaggiatore di fiumi; Demenzio e Goffredo, due anziani convalescenti, introverso il primo quanto estroverso l’altro, che proprio grazie ai loro contrasti caratteriali creano un’intesa che si direbbe indissolubile, anche perché la maschera di donnaiolo di Goffredo è forse un trucco per non mettere in luce la sua sostanziale fragilità; Ernesto che, dopo aver perduto la moglie, studia la soluzione meno traumatica per scomparire e trova, lui introverso ma con una ricca vita interiore, nell’amicizia con Fiumara, occasionalmente incontrata, l’antidoto che gli consente di ritornare alla vita; Elvira, una donna duramente provata dalla vita che le ha tolto il sostegno del fratello di gran cuore, morto giovanissimo di polmonite, subito dopo il rientro a casa da Firenze, che aveva raggiunto da volontario all’epoca della tristemente famosa alluvione, una donna che, tra l’altro, ha subito violenza e cerca nuove ragioni di sperare; Giulia, persona innamorata di acque di fiume, anche lei alle prese con il male oscuro che la spinge a rimpiangere il passato suo remoto; Annita, viaggiatrice inquieta, ricercatrice di risposte credibili alle sfide dell’ esistenza; Rosa, testimone dell’invasione - liberazione anglo-americana del 1943; Greta, una giovane nordica che ha perduto il suo amore in un maledetto incidente di mare; Lisa, attrice combattuta fra l’essere e l’apparire.
Tutti questi personaggi e altri, come la sorella medico di Fiumara e coloro che l’evocazione del vissuto dei suddetti attori porta alla luce, con tutto il bene e/o il male di cui sono portatori, arricchiscono il romanzo che diviene un immenso amplificatore di sensazioni, sentimenti, eventi, esperienze tali da rappresentare in forma credibile molte sfaccettature e ambivalenze della realtà che ci circonda.
Non va sottovalutato il fatto che, a parte l’importante portata d’acqua della fiumara descritta, piuttosto in contrasto con la scarsa significanza dei nostri corsi d’acqua, ridotti a rivoli, la fiumara di cui si parla nel romanzo evoca irresistibilmente i fiumi isolani, quali l’Asinaro e/o il Tellaro, mentre l’oasi umida percorsa dai protagonisti richiama alla memoria la riserva naturalistica di Vendicari e la sua oasi faunistica. L’isola in cui il vecchio marinaio Giò accoglie Fiumara e Nido ha molte somiglianze con quella a noi assai prossima di Capo Passero, o forse qualche altra isola vulcanica, come Salina.
Lo diciamo a voce bassa per non farlo sentire agli altri 12 eccellenti coautori del romanzo: i tre avolesi, Giuseppina, Sebastiana e il sottoscritto sono riusciti, senza alcuna forzatura, beninteso, a trasferire nell’opera l’ambiente, la magia e l’atmosfera mediterranea della loro terra, della nostra terra. Gesto inconsapevole d’amore per il nostro straordinario sud-est, spontaneamente emerso dal profondo delle nostre anime, ma anche suprema bellezza di questa nostra amata terra, in cui per buona sorte siamo apparsi al mondo e alla vita e sempre pronti ad ospitare chi la vuole conoscere e vivere, anche occasionalmente, come gli ospiti del resort.
Scrivere insieme questo romanzo, come afferma Giuseppina nella postfazione, è stata un’avventura avvincente, anche perché si è creata tra tutti gli aderenti al progetto sperimentale una complicità che travalica il momento della mera collaborazione. Nella sua azione di armonizzazione dei contenuti e degli stili, si è trovata nella condizione di chi, nel rispetto dell’estro, della creatività, della fantasia dei coautori – è questa la mia opinione - ha polarizzato l’attenzione su coloro che meglio hanno perseguito l’ideale dell’esplorazione dell’animo umano nel contesto del sociale.
Varie scritture, varie sensibilità, varie capacità letterarie e di rappresentazione della problematica umana. Il risultato è stato un arricchimento vicendevole, che apre il campo a futura collaborazione.
Mi piace infine, nel rinviare alla lettura diretta del poema finale, segnalare come questo sia, a parer mio, il campo in cui si sono espresse le voci più ardite, che, regalano “profonde emozioni”.
Ai lettori, come è giusto, il giudizio finale.
Intervento di
Nella Urso
Carissime
amiche e carissimi amici
Questa
sera ho il piacere di fare gli onori di casa nell’annunciare al tavolo della
presidenza la presenza della nostra amica, scrittrice e poetessa, dr.ssa Giuseppina
Rossitto che in questi ultimi anni ha cercato di coinvolgerci in un progetto
editoriale importante e sperimentale, sia con la formula del romanzo collettivo
che con la rivista Quaderni di cui è direttore responsabile.
Annuncio
con piacere la presenza dell’assessore Giuseppe Morale, che ringraziamo per
l’interesse che ha anticipato alla nostra autrice riguardo alla formula
letteraria che andremo a presentare.
Al
tavolo della presidenza, salutiamo:
il
prof. Angelo Fortuna, co-autore in
tre romanzi curati da Giuseppina, che questa sera ci introdurrà all’opera e
alle forme di sperimentazione del romanzo;
la giornalista dr.ssa Gabriella
Tiralongo, che fin dal 2006 segue l’attività poetica e narrativa di
Giuseppina e con la formula dell’intervista induce l’autrice a svelare aspetti
dell’opera sviscerando tematiche, simbolismi e segreti.
Infine
me, Sebastiana Urso, co-autrice
negli ultimi due romanzi.
Da diversi anni Giuseppina ci parla
del valore della scrittura collettiva e ha trovato terreno fertile anche fra di
noi. La nostra autrice ha pensato a un vero manifesto di Movimento culturale,
in cui trovano espressione idee e modalità di espressione differenti, dalla
poesia, alla narrativa, alla pittura. La sperimentazione che ci ha proposto ha
senza dubbio un valore cooperativo e sociale, gestito in regime no profit, che,
su presentazione di progetto, gode anche del sostegno da parte della Coop
Adriatica, nonché del patrocinio culturale del Comune di Bologna.
Quando mi fu proposto di partecipare
alla stesura del primo romanzo collettivo, devo confessare che,
nell’immediatezza, mi fu difficile realizzare, come da pezzi di racconti
eterogenei, scritti da persone che non si conoscono e delocalizzate, potesse
nascere un romanzo. A distanza di due anni circa, devo ravvedermi. In ognuno di
noi c’è il desiderio di raccontarsi, di rappresentare storie che inizialmente
sembrano proprie, ma che in realtà interessano e sono connesse a intere
comunità.
Si raccontano momenti di vita,
diretta o indiretta, fatti accaduti che, filtrati dal ricordo e dalla memoria,
diventano narrazione, racconto.
Il lavoro prodotto dalla sottoscritta in
questo romanzo valorizza la figura femminile rapportata a fatti bellici.
Raramente la donna viene presa a testimone di queste vicende. Io ho ritenuto
che avesse grande valore guardare alle piccole storie che hanno visto le donne,
con particolare riferimento allo sbarco alleato ad Avola, testimoni di quel
dramma umano. Ho ideato così la figura di nonna Rosa, che ho messo a disposizione
del progetto.
Il lavoro fatto da me è stato
sapientemente incastrato con racconti di altri autori, costruendo una trama che
guida il lettore attraverso situazioni che rispecchiano la singola personalità,
ma nello stesso tempo si inquadrano in un contesto sociale e di relazioni
interpersonali. L’incastro è opera della nostra regista che abilmente traduce,
taglia, modella, sceglie, decostruisce e ricostruisce la struttura dell’opera,
senza alterare il pensiero dell’autore, ma al contrario, rivitalizza
continuamente la scenografia, mescolando trame, situazioni, ricordi, sensazioni
personali.
Leggendo il libro nella sua interezza,
a opera ultimata, mi sono resa conto che la territorialità, cioè l’appartenenza
a città o regioni diverse, la distanza chilometrica, non è un ostacolo. Il
singolo autore dà voce, corpo e anima al proprio personaggio, la cui
integrazione con gli altri, esula dalla volontà dell’autore, per cui il singolo
racconto si innesta facilmente nell’architettura voluta dalla regista,
realizzando un unicum. Così ogni singolo intervento, pian piano, perde le
caratteristiche di un racconto di poche pagine fino a trasformarsi in un
romanzo.
Un altro aspetto che mi ha colpito,
in questo lavoro di gruppo, a distanza, è la sensazione che il romanzo
collettivo permette di superare quel senso di pudore, quella innata
riservatezza, che è propria di un autore principiante. La paura di essere associato
e identificato con il personaggio spesso impedisce di esternare le proprie
sensazioni, i propri sentimenti, le proprie emozioni che invece diventano un
cavallo di battaglia per i grandi autori. I personaggi appartenenti a mondi
diversi sia dal punto di vista culturale, sociale, educativo, interagiscono fra
loro e la lettura è piana, piacevole, stimolante, in quanto qualsiasi dialogo
rappresentato, qualsiasi situazione descritta, non è fine a se stessa, ma al
contrario lascia trapelare una continuazione accattivante.
Ci sono tante altre cose da dire,
alcune sono state comunicate dall’autrice attraverso l’emittente Canale 8,
ieri, questa sera ne affronteremo altre, perciò passo la parola al prof. Fortuna e a seguire a Gabriella
Tiralongo e Giuseppina Rossitto